In diverse occasioni Papa Francesco ha parlato di «globalizzazione dell’indifferenza», un sentimento connotato negativamente, ma che si va imponendo come emozione sociale dominante. In troppe occasioni ci accorgiamo che «la dignità non è soltanto un dato originario, acquisito alla nascita per il fatto di essere uomini, ma è anche un compito. È un diritto al quale corrisponde un dovere, che rinvia pertanto all’assunzione della responsabilità». È il bioeticista Giannino Piana a scrivere queste righe sostenendo, tra l’altro che la «civiltà dei diritti - che grazie all’istituzione dello Stato sociale, ha avuto il grande merito di sottrarre alla condizione di marginalità intere classi sociali - non ha avuto la capacità di sviluppare, in parallelo, la coscienza dei doveri». Essendo la generalizzazione e l’astrazione le caratteristiche dominanti nel nostro contesto sociale, il groviglio inestricabile di relazioni possibili al suo interno determina un costante aumento della complessità in ogni dimensione della nostra esistenza. Si tratta di complessità che deve necessariamente essere ridotta, mediante una selezione da operare tra le infinite possibilità di relazione. Selezionare le relazioni all’interno della nostra sfera sociale significa spesso usare gli strumenti dell’indifferenza “civile” e dell’evitamento. Per pensare la società dell’indifferenza occorre una strategia teorica che non dimenticando l’umano, rinunci a pensare la società moderna a partire dall’uomo. A lungo sinonimo di “comunitario” o “civile” il sostantivo “sociale” sempre più spesso chiede di essere utilizzato in alternativa ad “umano”, perché esprime la generalizzazione insita nelle relazioni astratte che costruiamo e che superano ogni specificità personale dato che viviamo in funzione di rapporti interattivi/quantitativi di tipo prestazionale che socializzano ad una valutazione dell’altro di tipo strumentale. Il sociale diviene un ambito totalizzante, con le sue determinanti che inglobano ogni attività umana e nel contesto epocale che salda l’esigenza della razionalizzazione a quella dell’accelerazione dei progetti di vita, il sociale promuove l’attenzione per determinati fenomeni decretandone frettolosamente la concomitante obsolescenza, spingendo milioni di persone alla disaffezione indifferente. Non a caso, il sociologo Mario Morcellini, riferendosi all’inserimento delle giovani generazioni nel contesto delle competenze sociali dell’io-ruolo, parlava di una «socializzazione di corsa», intendendo una crescita che non sembra più rispettare tempi umani, quasi fosse un percorso eterodiretto che ricrea le sue logiche all’interno del quadro antropologico dell’assimilazione di habitus e dell’introiezione del rapporto valori/norme. A fronte dell’ovvia necessità di tempo per strutturarsi, la formazione diventa un’avventura precipitosa in cui bruciare le tappe rappresenta la norma, in un forcing socializzativo dove i giovani non imparano più a riconoscere i loro limiti, dato che esistono esattamente per essere oltrepassati in un continuo rilancio contingente verso un illimitato “essere altrimenti”.
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale