Difficile produrre tartufi in un clima che cambia

Difficile produrre tartufi in un clima che cambia

di Davide Neri
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Martedì 5 Marzo 2024, 04:55

La produzione di tartufo nero pregiato (Tuber melanosporum) oggi avviene principalmente in impianti arborei coltivati, ovvero grazie alla tartuficoltura, mentre in passato la raccolta dei tartufi avveniva esclusivamente in tartufaie spontanee o controllate. Va sottolineato che eventi eccezionali, seppur di difficile previsione nel breve periodo, mostrano una frequenza sempre maggiore. Lunghi periodi di siccità estiva, piogge erratiche, grandinate, inverni miti con aumento medio delle temperature di diversi gradi sono la nuova normalità; pertanto, anche la tartuficoltura deve adeguarsi a queste condizioni adottando nuovi modelli gestionali. Nonostante questo, la produzione è calata considerevolmente, e questo ci dice come gli ambienti naturali per il tartufo siano ormai limitati e che i mutamenti climatici ne minacciano la coltivazione.

Il tartufo nero pregiato ha un ciclo biologico simbionte con diverse specie arboree e arbustive che si differenzia significativamente da quello degli altri funghi superiori. Il ciclo di produzione dei corpi fruttiferi è di circa 9 mesi; comincia a fine primavera e continua in primavera/estate con la formazione dei carpofori e con un periodo di maturazione che arriva fino a 4 mesi in autunno/inverno. Pertanto, l’esame del ciclo biologico è la base di partenza per razionalizzare la tartuficoltura nello scenario dei cambiamenti climatici. Il periodo di maggiore criticità è la carenza idrica estiva, tipica del clima mediterraneo che sta diventando la norma nei nostri ambienti collinari e montani.

Lo stress idrico e termico estivo può coincidere con il momento di formazione dei corpi fruttiferi e causare mortalità elevata degli ascocarpi che non riescono a superare la siccità e il riscaldamento superficiale del suolo, come è avvenuto nell’estate 2023. 
Questo rappresenta uno dei principali colli di bottiglia per la produzione di tartufi nelle Marche, una delle regioni italiane che vanta antiche tradizioni nella raccolta e consumo dei tartufi, tanto da farne un prodotto simbolo del territorio dell’entroterra. Diversamente da altre colture agrarie, l’avanzamento delle conoscenze e delle tecniche che possono migliorare la produttività è risultato più lento, a causa della particolare biologia del tartufo. La ricerca ha delineato opportune pratiche per la moltiplicazione di piante micorrizate in vivaio e suggerito diverse tecniche per le tartufaie coltivate, necessarie per la buona riuscita di un impianto nonostante l’aumento della complessità del sistema.

Il gruppo di ricerca del Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari e ambientali (D3A della Università Politecnica delle Marche) composto da Veronica Giorgi, Ivan Castelli e Lucia Landi ci spiega che le radici assorbenti, più fini, della pianta arborea ospitano la simbiosi con il tartufo e hanno un elevato ricambio ciclico negli strati superficiali del suolo.

Più del 95% delle radici assorbenti formate ogni anno necrotizzano lasciando residui che obbligano all’abbandono temporaneo delle porzioni di suolo utilizzate (nicchie). Questo comportamento obbliga le radici a rinnovarsi ogni anno e a esplorare sempre nuove nicchie fino all’incontro con gli apparati radicali delle piante limitrofe. Questo si traduce negli anni in un drastico calo della produzione di radici assorbenti e del micelio del fungo e di conseguenza in una minore formazione di carpofori. Allo scopo di ritardare il fisiologico calo produttivo in una tartufaia di Quercus pubescens (roverella) di Roccafluvione (AP) è stata eseguita una sperimentazione mediante apporto di sostanza organica matura arricchita con spore di Tuber melanosporum su porzioni specifiche pari a circa il 20% dell’apparato radicale.

La rigenerazione della fertilità di queste nicchie ha indotto un significativo aumento di radici assorbenti nei quadranti che hanno ricevuto la sostanza organica e un parziale recupero della produzione di tartufi. Il maggiore benessere delle radici si ripercuote anche sulla fotosintesi della chioma che può fornire più carboidrati alla radice e al tartufo in uno scambio virtuoso e reciproco di nutrienti, acqua e prodotti della fotosintesi. Nelle nuove sperimentazioni sono in corso di installazione reti ombreggianti e irrigazione climatizzante per favorire ulteriormente la fotosintesi, e garantire temperatura e umidità del suolo ottimali nel pianello. Lo studio dell’ecologia del tartufo si avvantaggia anche dell’analisi delle cenosi microbiche (in particolare di funghi e batteri) presenti in vivaio e nella tartufaia, come è stato messo in evidenza negli studi congiunti fra D3A (Neri, Giorgi, Landi e Romanazzi) e Università di Urbino (Amicucci) in collaborazione con i vivai forestali di Amandola (AMAP, Peroni). Va ricordato che la tartuficoltura, a cavallo tra selvicoltura e agronomia, è una pratica che richiede relativamente pochi interventi colturali e non necessita di trattamenti chimici potenzialmente dannosi agli habitat circostanti.

Per questo motivo è da considerarsi positiva anche in aree naturali tutelate, in montagna e collina, con adeguate caratteristiche pedoclimatiche. Le pratiche colturali raccomandate sono poche, ma risultano essenziali anche in risposta ai cambiamenti climatici. Tra queste, l’intervento di potatura aerea e la lavorazione leggera del suolo, con erpicatura superficiale appena finita la raccolta per assecondare il ciclo vitale del tartufo e l’equilibrio vegetativo della pianta ospite. 

* Docente Dipartimento di Scienze agrarie, alimentari  e ambientali dell’Università Politecnica delle Marche

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