Deglobalizzazione sulla carta: meglio per le nostre imprese

Deglobalizzazione sulla carta: meglio per le nostre imprese

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 26 Luglio 2023, 01:50

Che fine ha fatto la deglobalizzazione? Dopo i problemi nelle catene di fornitura internazionali causati dalla pandemia e le tensioni geopolitiche determinate dalla guerra in Ucraina si era parlato di un’inversione di tendenza nel processo di apertura e integrazione dei mercati internazionali che aveva caratterizzato gli ultimi decenni. Imprese e governi hanno iniziato a parlare di re-shoring, cioè di riportare in ambito nazionale produzioni precedentemente decentrate in altri paesi.

In ambito Ue vi è stata una significativa inversione di tendenza nelle strategie di politica industriale con l’introduzione degli obiettivi di autonomia strategica o di sovranità tecnologica, finora assenti nel lessico delle politiche industriali europee. Si è presa coscienza del fatto che l’Ue aveva abbandonato intere filiere produttive in settori che hanno una rilevanza strategica per la transizione digitale ed ecologica: basti pensare ai pannelli solari, alle batterie, ai microchip. Non che questa situazione non fosse nota ma si pensava che la specializzazione internazionale associata alla liberalizzazione degli scambi avrebbe generato vantaggi per tutti. La fine di questa prospettiva (qualcuno dice illusione) non ci riporterà all’autarchia nazionale ma ad una suddivisione del mondo per grandi aree.

Qualcuno, infatti, preferisce il termine di friend-shoring per indicare che non necessariamente il rientro delle filiere produttive dovrà avvenire all’interno dei confini nazionali; è sufficiente che sia all’interno di aree geopolitiche omogenee e sufficientemente stabili. Alle parole sono seguiti i fatti, con lo stanziamento da parte della UE e dei singoli stati membri di ingenti risorse finanziarie destinate e favorire gli investimenti in settori e filiere considerati strategici. Lo stesso hanno fatto gli Usa con l’Inflation Reduction Act (Ira) che a dispetto del nome prefigura un’ingente iniezione di sovvenzioni pubbliche per favorire gli investimenti privati nei settori dell’energia e della transizione ecologica.

A fronte di tutto ciò, nel 2021 la crescita del commercio mondiale (+9,4%) ha più che recuperato le riduzioni registrate nel 2019 e 2020.

Nel 2022 la crescita reale è stata debole (+2,7%) ma sostanzialmente in linea con la crescita del PIL mondiale e questa associazione dovrebbe mantenersi anche per il 2023 e il 2024. Nel 2022 il valore degli scambi mondiali ha raggiunto il livello record di circa 32 trilioni di dollari, di cui 25 generati dallo scambio di beni e 7 dal commercio di servizi. L’Italia ha sfruttato appieno queste tendenze con una crescita dell’export che nel 2022 ha sfiorato il +20%.

Le Marche sono risultate la prima regione per crescita dell’export; una performance in gran parte drogata dai prodotti farmaceutici ma che ha interessato tutti i principali settori. Di qui la domanda in apertura dell’articolo. Alla quale si possono dare due risposte. La prima è che gli effetti della deglobalizzazione si vedranno a lungo termine, dati i tempi lunghi necessari per ripristinare la capacità produttiva in alcuni settori. Al momento non ci sono alternative agli assetti consolidati ma con il passare del tempo i nuovi orientamenti produrranno mutamenti significativi nella geografia degli scambi di merci e servizi a livello internazionale. La seconda interpretazione è che il livello di integrazione economica mondiale è andato così avanti da rendere impossibile un’inversione di tendenza. Vi potranno essere modifiche e aggiustamenti ma difficilmente si potrà tornare indietro. È un’interpretazione che possiamo accogliere con favore.

Alla globalizzazione vengono rimproverati diversi effetti negativi, fra i quali la crescita delle disuguaglianze, ma è indubbio che ha prodotto notevoli benefici. Inoltre, come dimostra l’esempio della Ue, l’integrazione economica è anche uno dei principali antidoti ai nazionalismi. Rimanendo nell’ambito economico, le imprese italiane hanno dimostrato di saper competere nell’arena internazionale e di trarre vantaggio dall’apertura dei mercati piuttosto che dalla loro chiusura. Possono quindi salutare con favore il fatto che, almeno per il momento, la deglobalizzazione è più sulla carta che nella realtà.

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