Quante farfalle svolazzano in giro? Viste le tempeste in corso nei mercati mondiali, devono essere davvero tante, ben più di quelle citatissime di Hong Kong il cui battito d’ali sarebbe in grado di provocare un uragano a New York (in verità, Edward Lorenz – matematico e meteorologo – per primo nel 1962 parlò delle farfalle del Brasile e del conseguente tornado in Texas). Qui da noi si teme la tempesta perfetta per il più iconico e popolare cibo, la pasta. Il prezzo del grano duro, quello che serve per la pasta, nel 2021 è salito fino a 500 euro a tonnellata, cioè più del 60%, rispetto allo scorso anno. Con stime preoccupanti di ulteriori aumenti entro Natale, fino a picchi di 600-700 euro. Per adesso i pastai italiani hanno deciso di tenere i prezzi bassi per non perdere quote di mercato, ma fino a quando resisteranno? Insomma, se la tempesta meteorologica a New York o in Texas poco ci preoccupa, l’impennata del prezzo dei generi alimentari ci tocca da vicino.
SEGNALI POSITIVI
E potrebbe non riguardare solo la pasta, ma tutta la spesa, incredibilmente anche quella di prodotti made in Italy. Il mondo è talmente interconnesso (è anche l’insegnamento della pandemia Covid), che nessuno è sicuro di restarne fuori. Luigi Scordamaglia ha un punto d’osservazione privilegiato sull’argomento, essendo al vertice di Filiera Italia, l’associazione che riunisce un’ottantina di aziende, tra cui molti big dell’agroalimentare e della distribuzione. «Il feeling diffuso – afferma - è che l’alimentare italiano sia ripartito alla grande, anzi non si sia mai fermato. Come al solito, il bicchiere è mezzo pieno. Da una parte c’è la straordinaria, continua evoluzione delle esportazioni: il mondo riprende a vivere e la prima cosa che fa è tornare a mangiare italiano. La parte mezza vuota è rappresentata, invece, dalle nuove difficoltà che comprimono i margini delle imprese e che rischiano di ricadere sui prezzi al consumo: l’impennata delle materie prime, dell’energia e dei servizi». Inizialmente si è trattato di fenomeni oggettivi che giustificavano gli aumenti. Nel caso del grano duro, per esempio, la siccità in Canada e Russia, cioè i principali fornitori dell’Italia che notoriamente non è autosufficiente. La pandemia ha inoltre spinto molti Paesi a imporre misure restrittive alle esportazioni di generi alimentari per tutelare il proprio autoapprovigionamento.
SPECULAZIONI
Rimessasi in moto l’enorme economia della Cina, è schizzato in alto il costo del noleggio dei container: + 317% sulla rotta Shangai-Genova, 10 mila dollari per un singolo carico perfino su tratte ravvicinate. «Ma nel caso del nolo dei container – denuncia Scordamaglia – abbiamo il fondato sospetto che poi sia intervenuta la speculazione con l’adozione di alcune pratiche come il blank sailing e le cancellazioni senza preavviso delle spedizioni che penalizzano fortemente l’export agroalimentare italiano». Secondo Scordamaglia è «in atto un comportamento fortemente speculativo e ingiustificato da parte delle principali compagnie di navigazione responsabili del commercio mondiale di container». Nel settore dei trasporti via mare, c’è una altissima concentrazione con soli tre top carrier internazionali che detengono il 45,3% del mercato e con i primi 10 che ne controllano oltre l’80%. «È un indiscutibile oligopolio – afferma il consigliere delegato di Filiera Italia – che sta provocando enormi danni economici alle imprese specialmente italiane. Noi ne risentiamo di più a causa dei limiti delle nostre infrastrutture logistiche. Chiediamo alle autorità antitrust di intervenire». REAZIONE A CATENA
PREOCCUPAZIONI
All’orizzonte, infine, le preoccupazioni legate alla strategia “Farm to Fork” dell’Unione Europea che di fatto spingerà a minori produzioni (secondo la stessa Ue tra il 5 e il 15% e ad un aumento dei costi intorno al 10%). «C’è però il rischio – afferma Scordamaglia – che la transizione verde non guidata da un approccio obiettivo e razionale trasformerebbe un’opportunità in una sconfitta per i produttori ma anche per i consumatori europei». «Si può produrre – conclude – con più tecnologie pulite, di cui noi italiani siamo capaci e dotati, oppure lasciare spazio ad altre zone del mondo meno attente all’ambiente e al rispetto dei lavoratori e di chi consuma.
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