Caporalato in azienda, condannato imprenditore: è il primo caso nelle Marche

Caporalato in azienda, condannato imprenditore: è il primo caso nelle Marche
Caporalato in azienda, condannato imprenditore: è il primo caso nelle Marche
di Luigi Benelli
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Sabato 1 Aprile 2023, 05:40 - Ultimo aggiornamento: 11:47

 PESARO - Primo caso di caporalato nelle Marche, ieri la sentenza. Si tratta del processo a carico di Simone Druda, titolare della ditta di serrande di Case Bruciate, accusato di sfruttamento della manodopera, violazione delle norme sulla sicurezza, estorsione (due tentate e 4 consumate) e violenza privata. Il pm Silvia Cecchi per lui aveva chiesto 6 anni e 6 mesi, è arrivata una condanna a 3 anni e 9 mesi.


Passo indietro


Un’indagine durata due anni dal 2015 al 2017 quando i carabinieri della compagnia di Pesaro e del gruppo tutela del lavoro avevano trovato 11 lavoratori “in nero”, e 13 irregolari dal punto di vista contrattuale e contributivo, con un profitto indebitamente conseguito dall’imputato pari a circa 350.000 euro, consistenti nel risparmio delle retribuzioni dovute, da sommarsi all’evasione contributiva di rilevante importanza, attestabile intorno ai 150.000 euro.

Secondo gli atti dell’inchiesta l’uomo avrebbe tenuto atteggiamenti di minacce, chiesto dimissioni forzate, turni di lavoro massacranti, con straordinari non pagati. Il tutto “sfruttando” lavoratori richiedenti asilo e quindi in stato di bisogno. Persone costrette a lavorare a qualunque condizione. 


La ricostruzione


Venivano contestati turni massacranti fino a 12 ore al giorno. Tutti i giorni. Senza riposo. Compresi il sabato e la domenica. Il tutto ripagato per pochi spiccioli. Venti euro al giorno. Anche se a volte, stando alla ricostruzione degli inquirenti, non avrebbero visto neppure quelli. Una ricostruzione negata dall’imputato che ha sempre respinto le accuse. Erano 28 gli ex dipendenti che si sono costituiti parte civile nel processo (difesi tra gli altri dagli avvocati Alessandro Pagnini, Andrea Paponi, Silvia Saccomandi, Isabella Paqualini) che complessivamente hanno chiesto oltre 50 mila euro di risarcimento. Tra loro c’era chi aveva un chiodo conficcato in una mano, da parte a parte. Ma il datore di lavoro gli avrebbe chiesto di dire di essersi fatto male in casa, non in ditta. Per evitare guai con l’Inail e ispezioni. Poi un altro ragazzo che durante il dibattimento aveva detto di essere caduto da tre metri, da una scala. Gli sarebbe stato detto di non andare al pronto soccorso. Ma quando ci andò, contestualmente il datore gli avrebbe aperto la partita Iva, altrimenti era irregolare. I legali Enrico Andreoni e Francesca Fraternali avevano sostenuto che non ci sarebbe stato sfruttamento, in quanto i soggetti erano liberi di licenziarsi o di andarsene. Non ci sarebbe stata costrizione e per quanto riguarda i compensi è una questione civilistica, non penale. 


L’appello


Dei 28 lavoratori alcuni non hanno presentato querela e sono usciti dal processo. Ieri il giudice ha condannato Druda a 3 anni e 9 mesi per il caporalato limitatamente al comma 1 (profilo più lieve rispetto all’intermediazione illecita) alla oltre a una multa da 11.500 euro. Le parti offese dovranno affrontare un procedimento civile per ottenere un eventuale risarcimento. Gli avvocati Andreoni e Fraternali si dicono «parzialmente soddisfatti, alcune nostre difese sono state accolte. Il reato di caporalato è stato ridimensionato. Leggeremo le motivazioni e valuteremo l’appello».
 

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