In una interessante intervista apparsa su questo giornale, lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet - relativamente ai problemi del disagio giovanile - ha dichiarato che «i ragazzi (si scatenano) perché sono stati rinchiusi a causa del Covid e quando un detenuto esce dal carcere non è gentile. Si sono acuite situazioni già difficili ed in assenza di regole sociali e familiari, il disagio continuerà. Se si scatena la violenza dei giovani nelle piazze, vuol dire che è aumentato l’uso di droga ed alcol». Lo stile argomentativo appare di senso comune, riuscendo ad aggregare in stile compilativo una glossa di sensazioni mosse da evidenze sociologiche ammansite per non urtare il senso comune della società del paradosso. I giovani stanno male e sono violenti non tanto a causa del Covid e dei lockdown, ma per il neo-distanziamento sociale che li vede protagonisti passivi nonostante esprimano il cuore di un innegabile mutamento antropologico. Il dr. Crepet sa benissimo che le idee di scolarità e genitorialità a cui rimprovera un deficit di socializzazione responsabile dei giovani, oggi sono improponibili, sia perché l’osmosi dei ruoli educativi impedisce un contesto di interiorizzazione di regole comportamentali, sia perché la civiltà dei diritti stabilisce la perfetta auto-sufficienza delle tante condizioni dell’umano (infantile, adolescenziale ecc.) impedendone, di fatto, la correggibilità. La deriva della condizione giovanile è inarrestabile e non contempla azioni di recupero muovendo da non meglio precisate strategie di ripristino o di ritorno a valori forti, dato che ormai, la relazione ed il legame sono degli accessori nella costruzione del sé. Non a caso, nella cultura contemporanea, l’identità viene declinata attraverso concetti come faccia, personaggio, profilo, attore, ecc. che sintetizzano a diversi livelli, un processo di estraneazione dal paradigma del ruolo e dai riferimenti normativi a cui immediatamente rinviava. In questo quadro l’individuo giovane vede contemporaneamente aumentare gli spazi di liberazione del sé, ma anche la propria vulnerabilità personale. Il desiderio di sovranità di sé ed autodeterminazione si lega al rifiuto - o alla relativizzazione - di tutto ciò che è altro dall’io, con la libertà individuale esclusivamente interpretata come aumento di possibilità di scelta e di azione, realizzate all’interno dello scioglimento dei vincoli che legavano un io ad un noi. Si tratta di un processo evolutivo che spesso conduce in un vicolo cieco: il doppio slegamento - dai vincoli sociali e dalle strutture morali – garantisce il riconoscimento di un processo di liberazione egoica, ma nel contempo l’individuo isolato diventa immediatamente più debole e vulnerabile. C’è chi come la sociologa Chiara Giaccardi, legge la vulnerabilità «non come difetto dell’identità, ma come tratto antropologico costitutivo che ci consente ancora un’apertura all’altro, alla relazione, che ci rende esseri generati e generanti.
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale