Neo-distanziamento sociale e il disagio (Covid) giovanile

Neo-distanziamento sociale e il disagio (Covid) giovanile

di Rossano Buccioni
5 Minuti di Lettura
Martedì 23 Novembre 2021, 10:20

In una interessante intervista apparsa su questo giornale, lo psichiatra e sociologo Paolo Crepet - relativamente ai problemi del disagio giovanile - ha dichiarato che «i ragazzi (si scatenano) perché sono stati rinchiusi a causa del Covid e quando un detenuto esce dal carcere non è gentile. Si sono acuite situazioni già difficili ed in assenza di regole sociali e familiari, il disagio continuerà. Se si scatena la violenza dei giovani nelle piazze, vuol dire che è aumentato l’uso di droga ed alcol». Lo stile argomentativo appare di senso comune, riuscendo ad aggregare in stile compilativo una glossa di sensazioni mosse da evidenze sociologiche ammansite per non urtare il senso comune della società del paradosso. I giovani stanno male e sono violenti non tanto a causa del Covid e dei lockdown, ma per il neo-distanziamento sociale che li vede protagonisti passivi nonostante esprimano il cuore di un innegabile mutamento antropologico. Il dr. Crepet sa benissimo che le idee di scolarità e genitorialità a cui rimprovera un deficit di socializzazione responsabile dei giovani, oggi sono improponibili, sia perché l’osmosi dei ruoli educativi impedisce un contesto di interiorizzazione di regole comportamentali, sia perché la civiltà dei diritti stabilisce la perfetta auto-sufficienza delle tante condizioni dell’umano (infantile, adolescenziale ecc.) impedendone, di fatto, la correggibilità. La deriva della condizione giovanile è inarrestabile e non contempla azioni di recupero muovendo da non meglio precisate strategie di ripristino o di ritorno a valori forti, dato che ormai, la relazione ed il legame sono degli accessori nella costruzione del sé. Non a caso, nella cultura contemporanea, l’identità viene declinata attraverso concetti come faccia, personaggio, profilo, attore, ecc. che sintetizzano a diversi livelli, un processo di estraneazione dal paradigma del ruolo e dai riferimenti normativi a cui immediatamente rinviava. In questo quadro l’individuo giovane vede contemporaneamente aumentare gli spazi di liberazione del sé, ma anche la propria vulnerabilità personale. Il desiderio di sovranità di sé ed autodeterminazione si lega al rifiuto - o alla relativizzazione - di tutto ciò che è altro dall’io, con la libertà individuale esclusivamente interpretata come aumento di possibilità di scelta e di azione, realizzate all’interno dello scioglimento dei vincoli che legavano un io ad un noi. Si tratta di un processo evolutivo che spesso conduce in un vicolo cieco: il doppio slegamento - dai vincoli sociali e dalle strutture morali – garantisce il riconoscimento di un processo di liberazione egoica, ma nel contempo l’individuo isolato diventa immediatamente più debole e vulnerabile. C’è chi come la sociologa Chiara Giaccardi, legge la vulnerabilità «non come difetto dell’identità, ma come tratto antropologico costitutivo che ci consente ancora un’apertura all’altro, alla relazione, che ci rende esseri generati e generanti.

Dunque vulnerabilità come ferita, ma anche come apertura vitale». Nonostante l’interesse di queste visioni, restando la logica della modernità quella della frammentazione e ricomposizione dei processi in funzione di un’efficienza sempre maggiore, con un serrato controllo delle singole fasi, le fragilità individuali si strutturano all’interno di un “effetto-disumanizzazione”, esercitato dai criteri pervasivi di efficientamento, funzionalità e controllo. Il meccanismo che vi si determina è così potente da risucchiare l’uomo al suo interno e nella nostra quotidianità, l’altro ormai è uno sconosciuto con la società che funziona proprio come un organismo dove ciascuno performa il proprio ruolo consentendo un andamento fluido del mondo sociale, pur nell’intrasparenza reciproca e nella scarsa conoscenza. Origina da queste considerazioni una delle questioni più spinose in sociologia: a partire dall’estrema individualizzazione della rappresentazione della realtà, com’è ancora possibile un ordine sociale? L’assolutizzazione dell’io pone il problema molto serio del dualismo tra individuo e società riproponendo la questione del riconoscimento, cioè del fatto che gli individui si domandino a vicenda patenti di incontestabilità, provando a ricostituire qualche forma di legame sociale. Il legame muta e si trasforma - dato che l’uomo non potrebbe vivere in assoluto senza legami - diviene “contratto”, reversibile e destinato a non durare, in balia della cultura della valutazione e della velocizzazione razionalizzante del ciclo d’esistenza. La premessa di tutto ciò è che l’individuo tardo-moderno si costruisce: noi costruiamo la nostra faccia, decidendo chi voler essere e l’immagine più confacente di me che voglio proiettare all’esterno, desiderando che gli altri vedano e riconoscano in ogni momento, identificandovi uno specifico progetto esistenziale. Tutto allora si riduce ad un gioco di superficie, un gioco di specchi e di rimandi reciproci che sostengono perfettamente la sceneggiatura della situazione. Dunque, si passa dalle norme – che in T. Parsons statuivano la performance del ruolo, (salvaguardandone la forma con sanzioni positive o negative), si passa all’etichetta, una serie di comportamenti di reciproco aggiustamento, di cortesie, cordialità e rispetto per la faccia dell’altro che però hanno più una funzione di evitamento che di incontro. Dalle regole che, di solito traducono dei valori (e dunque delle visioni vincolanti della realtà), passiamo al cerimoniale con tutte le sue formule: di cortesia; riconoscimento esteriore ecc. che sicuramente consentono di mantenere la propria faccia, ma difendendola dall’incontro con l’altro che diventa competitor, rivale o avversario da superare.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

© RIPRODUZIONE RISERVATA