Divorzio tra due donne: il giudice cancella l'assegno di mantenimento

Divorzio tra due donne: il giudice cancella l'assegno di mantenimento
Divorzio tra due donne: il giudice cancella l'assegno di mantenimento
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Domenica 26 Luglio 2020, 13:38 - Ultimo aggiornamento: 16:13

PORDENONE Divorzio tra due donne: l'assegno di mantenimento, riconosciuto dal magistrato di primo grado (doveva pagarlo il soggetto economicamente forte, ndr) viene cancellato da quello di secondo. E quella che era stata salutata come una rivoluzione diventa un bluff. La Corte d'Appello di Trieste demolisce e ribalta la sentenza del Tribunale di Pordenone (giudice Gaetano Appierto) che, in una causa di divorzio (seguito ad un'unione civile gay) tra persone dello stesso sesso, aveva riconosciuto a una 39enne un assegno di mantenimento per le rinunce lavorative (perdita di opportunità di carriera) fatte per amore o nell'interesse della coppia. Nella sostanze, secondo il magistrato di primo grado, il soggetto debole nella relazione gay doveva ottenere una soddisfazione economica dal quello forte, una nota imprenditrice 33enne del Pordenonese.

LA STORIA
Poco tempo dopo l'entrata in vigore della Legge Cirinnà (maggio 2016) due donne, che convivevano da qualche anno, avevano certificato ufficialmente la loro unione, ma, a distanza di poco più di un anno, il rapporto si era logorato e la coniuge economicamente più forte aveva chiesto lo scioglimento dell'unione civile. In questo caso, a differenza di quanto accade per le coppie eterosessuali, in caso di unione civile si accede direttamente al divorzio, senza passare per la fase della separazione (divorzio breve). A quel punto tra le due ormai ex compagne sono volati gli stracci e ne è nato un contenzioso. La coniuge debole, assistita dall'avvocato Maria Antonia Pili, ha chiesto l'assegno di mantenimento all'imprenditrice, che si è opposta con l'assistenza dei legali Anna D'Agostino e Silvia Aliprandi.

LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Il giudice Appierto, ai fini della corresponsione dell'assegno di mantenimento, ha applicato gli stessi criteri valevoli per il divorzio delle coppie eterosessuali sposate, valorizzando però anche la fase della convivenza. «Solo con la legge Cirinnà - motiva il giudice - la coppia aveva potuto legalizzare il rapporto, non essendo prevista in epoca anteriore una qualsiasi forma di unione tra coppie dello stesso sesso». Il Tribunale, partendo dall'indiscusso squilibrio tra le condizioni economiche e patrimoniali delle due donne, aveva ritenuto di ricondurlo alle scelte di vita assunte in precedenza. Nella sostanza una delle donna, per stare vicino alla compagna imprenditrice, avrebbe rinunciato a varie opportunità di lavoro e di carriera. In particolare, il tribunale aveva rilevato che la partner economicamente più debole aveva lasciato il lavoro a Venezia per dedicare più tempo alla compagna. Il risultato? Il giudice le aveva riconosciuto un assegno di mantenimento di 550 euro mensili da parte della ex compagna.

CLAMORE MEDIATICO
Il caso ebbe grande risonanza mediatica, perché creava un precedente che avrebbe fatto giurisprudenza. Ritenendo la sentenza ingiusta la 33enne, consigliata dai propri avvocati D'Agostino e Aliprandi, ha proposto ricorso contro la sentenza in Corte d'appello di Trieste, sostenendo, tra l'altro, che, in difetto di una precisa disposizione di legge, le norme della Legge Cirinnà non potevano essere applicate per i fatti verificatisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Inoltre, anche a voler considerare il pregresso periodo della convivenza, la parte economicamente debole non aveva peggiorato la propria posizione economica in conseguenza delle scelte logistiche e lavorative effettuate, ma, prove e documenti alla mano, al contrario, la aveva migliorata, posto che all'inizio della relazione sentimentale era disoccupata, mentre, dopo il trasferimento dalla compagna a Pordenone, aveva assunto un impiego ben retribuito e a tempo indeterminato.

A TRIESTE
La Corte d'appello (relatore Mauro Sonego) ha accolto il ricorso, annullando la sentenza del tribunale di Pordenone. In particolare ha stabilito che sono irrilevanti i fatti svoltisi anteriormente all'entrata in vigore della Legge n. 76/2016, dato che prima di allora i rapporti delle coppie di fatto non avevano alcuna regolamentazione, sicchè l'assenza di una disciplina legale e la mancata previsione di un'efficacia retroattiva da parte della stessa legge 76/2016 esclude che possano assumere rilievo i riflessi negativi lamentati dalla 39enne sulle sue aspettative lavorative. La 39enne era infatti disoccupata mentre dopo il trasferimento a Pordenone aveva trovato un impiego ben remunerato e a tempo indeterminato.

DECISIONE DECAPITATA
La Corte d'appello ha accolto le tesi dell'imprenditrice e ha escluso che la parte economicamente debole per poter garantire una maggior intensità al suo rapporto affettivo abbia sacrificato una miglior e più redditizia collocazione lavorativa meritevole di essere indennizzata. «Paradossalmente la sentenza di primo grado - il commento di alcuni legali che si occupano di unioni civili e divorzi - il Tribunale di Pordenone aveva riconosciuto alle coppie dello stesso sesso un corredo di garanzie addirittura migliore di quello riconosciuto alle coppie eterosessuali, dato che per queste ultime, solo in casi eccezionali e per aspetti diversi da quelli trattati nel caso di specie, la giurisprudenza valorizza il periodo della convivenza prematrimoniale».

In primo grado il Tribunale di Pordenone aveva, di fatto, garantito un vitalizio alla 39enne che vive sola, senza figli, e che ora lavora a tempo indeterminato nella pubblica amministrazione, a fronte di un'unione civile durata meno di 20 mesi. «Un decisione - ha chiosato un altro legale - che gridava vendetta e alla quale hanno posto rimedio i magistrati d'Appello».

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