La città dei cento palloni: amarcord bianconero con le sfide nelle piazze. Ecco le parole di tanti ex big dell'Ascoli

La città dei cento palloni: amarcord bianconero con le sfide nelle piazze. Ecco le parole di tanti ex dell'Ascoli
La città dei cento palloni: amarcord bianconero con le sfide nelle piazze. Ecco le parole di tanti ex dell'Ascoli
di Marco Vannozzi
4 Minuti di Lettura
Sabato 2 Aprile 2022, 05:10 - Ultimo aggiornamento: 9 Marzo, 22:45

ASCOLI  - Chissà quante storie potrebbero raccontare quei palloni tirati giù dal tetto della chiesa di San Tommaso. Storie romantiche, storie di amicizia, storie di ragazzi che trascorrevano pomeriggi interi a giocare insieme, perché dopo la partita c’era la rivincita, poi la bella e poi la bella della bella. Storie di tanto tempo fa. Storie di tanti ragazzi. 


Storie di sogni. Come quelle di Peppe, Meco, Lorenzo, Pietro, Antonio, ascolani diventati qualche anno dopo protagonisti nel mondo del calcio che conta. «Forse fra tutti quei palloni ce n’è uno che ho tirato pure io, ma quei palloni rappresentano storie di vita e di ricordi.

E chissà che emozioni racconterebbero se potessero parlare» rivela Giuseppe Iachini, una vita sui campi da calcio, oggi sulla panchina del Parma. «È un’immagine bellissima che ti riporta alla mente il calcio nella sua essenza. Quello che nasce nei cortili e nelle parrocchie, è il primo luogo di gioco dei bambini. Tanti anni fa non c’erano strutture o campi, quindi per noi ragazzi bastava buttare un pallone per strada, in piazza o all’oratorio e si giocava: frequentavo soprattutto la chiesa del Sacro Cuore. L’immagine è la dimostrazione vivente di quanta passione si respiri nella città di Ascoli e nell’Italia per il calcio. È il gioco dei bambini a cui basta un pallone per riunirsi e divertirsi. E le chiese e gli oratori erano luoghi di aggregazione».

A sfidarsi con Iachini sui campi del quartiere di Campo Parignano c’era anche Lorenzo Scarafoni. «Eravamo la “Generazione Tufilla”. Piazza Diaz era la nostra “cancha”. Ricordo le partite lungo il torrente di Santa Chiara, i palloni che finivano sui terrazzi e le litigate con i proprietari delle case – dichiara l’ex bianconero -. L’immagine della chiesa di San Tommaso mi riporta indietro nel tempo, alla mia infanzia». E chissà quante giocate all’epoca vedevano Domenico Agostini principe incontrastato a piazza Immacolata. «Le rovesciate? Erano d’obbligo. C’è tanta nostalgia. Non si vedono più ragazzi per strada o nei cortili. Lì, in quei posti nascevano i veri giocatori: tra gli spazi stretti, lungo le salite e sui terreni più difficili. C’era la fantasia, c’era il genio» racconta. 


Quelli come Pietro Zaini erano più fortunati. «Ho trascorso tanti anni a giocare nei giardini dietro la scuola di Borgo Solestà. Ci costruivamo da soli i pali di legno delle porte, spesso rompevamo qualche finestra. Ma dopo qualche minuto riprendevamo subito a giocare» ricorda l’ex giocatore del Picchio. Lì vicino ecco un altro che avrebbe scritto pagine importanti nella storia ascolana. «Appena finita la scuola, di corsa sui campi e tra le vie, in mezzo alla strada. Tornavamo a casa, sfiniti, con le scarpe sporche e bucate. Era il nostro modo di crescere e socializzare. Non avevamo altro. Ricordo i fogli arrotolati con il nastro isolante: ci bastava avere qualcosa di simile ad un pallone e lo calciavamo. Davvero bei tempi», racconta Antonio Aloisi. «I tempi sono cambiati. Oggi trovare i ragazzi giocare per strada è quasi impossibile. La chiesa di San Tommaso con le decine di palloni rappresenta un calcio e un tempo che non esistono più», aggiunge l’ex portiere e allenatore dell’Ascoli, Massimo Cacciatori. L’immagine ha fatto il giro del mondo, consegnando alla città delle cento torri una nuova storia. 


«I palloni sono un simbolo. I ragazzi non vivono più lo spazio urbano, fondamentale per giocare, innamorarsi, crescere – afferma il sociologo Nello Giordani -. Oggi la crescita avviene davanti ad uno schermo: li definisco “baby monitor”. Ma sono gli adulti a proporre modelli di cattiva condotta. Le strade, le piazze, i cortili invece erano luoghi di socializzazione. Questa era ad opera non solo dei genitori, ma anche dell’intero quartiere. Ed era meno repressiva: se un bambino veniva redarguito, non era dovuto alla severità dei suoi, ma era il mondo che lo chiedeva. I ragazzi erano meno aggressivi: lì si sfogavano, magari si picchiavano, poi tornavano a casa stanchi, ma felici». 

© RIPRODUZIONE RISERVATA