L’emergenza sanitaria che viviamo e la trasversalità del disagio psichico

L’emergenza sanitaria che viviamo e la trasversalità del disagio psichico

di Rossano Buccioni
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Martedì 20 Ottobre 2020, 10:40

Il Presidente Sergio Mattarella ha dichiarato che il Covid-19 aumenta il disagio psichico specialmente delle categorie sociali a rischio esclusione. Nell’universo del disagio psichico, le depressioni in particolare costringono ad interrogarsi sulla specifica influenza che la società esercita sui modi di essere e sul progetto di vita delle persone, dato che viviamo nella certezza che tutti dovrebbero avere la possibilità di forgiare la propria storia invece di subirne passivamente le ritorsioni. Da quando l’uomo diviene l’unica fonte del proprio agire, la depressione segna l’inizio di una sorta di eccezione popolare, mentre storicamente la “malinconia” era la cifra dell’uomo eccezionale. Senza assolutizzare la prospettiva delle scienze sociali, non si possono ridurre i disturbi psichici a deficit biologici, con l’aumento della complessità strutturale della società/mondo che evidenzia i problemi legati alla mentalizzazione del corpo da un lato, ed alla “socializzazione permanente” della psiche dall’altro, anche alla luce del progressivo allontanamento dello psichico dal “sociale” e viceversa. Dentro questa separazione si va determinando un rapporto corpo/società senza mediazioni, che impone ad es. di costruire il corpo come strumento di comunicazione dopo che nei secoli passati era stato corpo di fatica, di amore/passione o “corpo” militare. Alcuni osservatori interessati agli effetti sociali della depressione, sostengono che vi si esprima uno spettro patologico complesso relativo al rapporto dell’individuo con una società in cui la norma non è più fondata, come in passato, sulle costellazioni psichiche della colpa e della disciplina interiore, ma sulla necessaria autonomizzazione delle decisioni centrata sulla responsabilità personale. Il problema è che la forte pressione delle responsabilità di ruolo ricade sugli individui senza alcuna mediazione, dovendo essere metabolizzata o differita solo dall’azione del singolo. Invece di suscitare immediato adeguamento alle richieste conformizzanti dei sistemi sociali, la paura e la mancanza di certezze costringono gli individui ad un frenetico sforzo di autoformazione ed autoaffermazione. Il sociologo Zigmunt Bauman sosteneva che l’uniformità del comportamento, faceva della socializzazione il volano educativo capace di realizzare quella corrispondenza interiorità/istituzioni che diventava il parametro sociale vincente con cui valutare la propria adeguatezza alle dimensioni dell’agire e dell’esperire. L’incremento della dominanza economica ha determinato una forte dispersione delle responsabilità dei poteri centrali che ora lasciano al libero gioco dell’iniziativa privata la definizione dei parametri dell’integrazione sociale. In questo quadro, l’asse sintomatologico della depressione si sposta, configurandola come patologia dell’azione e non più perdita della gioia di vivere.

Se la capacità di assumere iniziative si costituisce come criterio-base al cuore di ogni progetto di autorealizzazione, per suo tramite si realizzerà l’individuazione della persona attraverso le architetture relazionali del riconoscimento sociale. Tuttavia, le richieste esorbitanti dell’io-ruolo fanno si che ogni esperienza depressiva, nella misura in cui si esprime con la fatica di vivere ed una considerevole perdita di iniziativa, entri in rotta di collisione con i paradigmi che la società di oggi considera essenziali per definire la dignità e la significanza dello stare al mondo. Considerando che la depressione è la grande sindrome di quella che Norberto Bobbio definiva “l’età dei diritti”, appare evidente come la possibilità di scegliersi la propria vita inizi a mostrare il rovescio della medaglia, perché il contesto sociale della liberazione psichica produce al contempo una crescente insicurezza identitaria. Per converso, quella che l’antropologia definiva l’ossessione identitaria dei nostri tempi, spesso cela problematiche profonde, come la costellazione del dis-adattamento, le forme di dipendenze da sostanze o altre additività, relative al vano tentativo di recuperare l’incontestabilità del proprio progetto di vita. Si è convinti che l’elevata efficienza e l’istantaneità decisionale che la società richiede a ciascuno di noi, rivelino una seconda natura insidiosamente patogena, che nelle fattispecie della fragilità e della frammentazione, contorna le molteplici responsabilità vissute sovente come peso intollerabile. Perennemente in bilico tra una verità ultima e dozzinali vicende quotidiane, la depressione copre un amplissimo ventaglio di fenomeni, con le forme dell’estraneazione e dell’alienazione che disegnano un’acuta sofferenza personale. Se negli anni ’60, la forte attenzione per la dimensione del privato, consentiva al sociologo Philip Rieff di teorizzare inedite “terapie della liberazione”, al tempo presente la sofisticatezza delle tecnologie del sé ci rifornisce dei mezzi pratici per costruire una specifica identità personale, sempre sul punto di rimaneggiarsi per coincidere con gli imperativi di una condizione generale che in molti definiscono “happycracy”. Nell’era del potere della felicità, la depressione diviene una patologia del tempo, essendo malattia dell’intenzione che priva di energia impedendo il movimento, la cui impressionante intensificazione, la vive come malattia dell’agire. Se la dimensione temporale perde l’orientamento morale al passato per assumere quello funzionale al futuro, il vuoto depressivo e la sua compensazione con gli additivi svelerà i paradossi che legano la smania di essere se stessi ai prezzi eccessivi della piena conformità ad imperativi sociali sempre nuovi. 

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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