Ancona, Pinti tra contagi e ricatti
«Costrinse Giovanna a non curarsi»

Claudio Pinti
Claudio Pinti
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Venerdì 14 Giugno 2019, 07:20
ANCONA - «Pinti, da quanto fu informato del suo stato di sieropositività, ha assunto un atteggiamento “negazionista”, rifiutando ogni cura, e ancora prima, negando l’esistenza stessa della malattia». Così deve escludersi che l’imputato possa aver comunicato alla prima compagna «all’inizio della relazione, un fatto che per lui era inesistente».  Lo scrive il gup Paola Moscaroli nelle motivazioni delle sentenza che tre mesi fa ha condannato in abbreviato a 16 anni e 8 mesi Claudio Pinti, il 36enne affetto da Hiv accusato di omicidio volontario e lesioni personali gravissime. In 35 pagine di motivazioni viene riassunta la vicenda con le indagini, fatte anche di intercettazioni telefoniche, portate avanti dalla Squadra Mobile di Ancona e concluse con l’arresto avvenuto nel giugno 2018 di Pinti, attualmente recluso a Rebibbia. Per quanto riguarda la morte della compagna, dal quadro probatorio «è possibile ricostruire – scrive il gup – un contesto di grave condizionamento psicologico esercitato da Pinti nei confronti di Giovanna». Il 36enne «influì in modo determinante sulla decisione della compagna non assumere la terapie antiretrovirale e, successivamente, di non affrontare le cure prescritte dai sanitari». Tra queste, dei cicli di chemioterapia, eseguiti solo negli ultimi giorni di vita. Dalle indagini svolte, per il gup, è emerso come si sia verificata «una vera e propria coazione, realizzata con condotte autoritarie e, soprattutto, intimidatorie, produttive di un radicale azzeramento decisionale della compagna».
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