C’è un gran lavoro da fare per il futuro. Ma la società e la politica sono pronte?

C’è un gran lavoro da fare per il futuro. Ma la società e la politica sono pronte?

di Carlo Carboni
4 Minuti di Lettura
Martedì 30 Marzo 2021, 11:23

Non si può non essere d’accordo con l’articolo di Mauro Gallegati sul Corriere Adriatico del 25 marzo e sui tre pilastri su cui cambiare strada: innovazione, ambiente, disuguaglianze sociali, soprattutto di genere e generazione. Su questi temi Università e Istao sono pronti a fare la propria parte, rendere programmabili e realizzabili questi tre criteri direttivi. C’è un gran lavoro da fare viene da chiedersi: è pronta la società a questa svolta, i suoi imprenditori, i suoi scienziati ed esperti, i suoi giovani le sue donne, le sue famiglie e le sue comunità?

E la politica, i partiti, le istituzioni regionali e le autonomie locali, le rappresentanze economico sociali, ambientali, culturali, il volontariato? Ci sarebbe una quantità di considerazioni da fare per dubitare di una risposta positiva, ma anche di una negativa, alle due domande: indubbiamente credere in gradi obiettivi dà speranza ed è possibile che nell’angoscia e nella paura del Covid 19 coscienza di ciascuno di noi chieda che molte cose cambino; ma l’esperienza di vita precedente reclama un riavvolgimento del nastro, un ritorno ai tradizionali standard. Come sosteneva Pasolini in Scritti corsari, «Ciò che si vive esistenzialmente è sempre enormemente più avanzato di ciò che si vive consapevolmente» (1990, p. 33). Per cercare di rispondere alla prima domanda, vanno tenute presenti tre trasformazioni sociali.

La prima è il declino etico. Il valore della laboriosità e dell’imprenditorialità sono progressivamente evaporati nel corso degli ultimi decenni a causa delle profonde trasformazioni di norme, valori e comportamenti dei marchigiani, a seguito della penetrazione del consumismo, dei cambiamenti degli assetti familiari e dell’invecchiamento della popolazione. Caratteri tipici del marchigiano, come l’etica del risparmio o il “senso della misura”, hanno lasciato il posto a quelle convinzioni degli individui basate su percezioni emotive “post-moderne” e tecnologiche più che su consapevolezze razionali. La cultura d’impresa e quella del lavoro, due punti fermi del “marchingegno”, sono largamente dispersi, come mostrano le difficoltà in questi anni del passaggio imprenditoriale e la crescita dei neet tra le nuove generazioni.

La seconda è il declino della società marchigiana, apparsa in questo secolo in difesa e in ritirata, tra l’incudine delle turbolenze della concorrenza dei mercati e il martello d’istituzioni regionali in difetto per eccesso di campanilismi. Soprattutto nella pandemia, la società si è ritrovata rarefatta e astratta, disincarnata dall’infittirsi di relazioni virtuali in ambienti comunicativi tecnologici.

Mentre l’iperconsumismo e le tecnologie penetravano, la società perdeva i protagonisti e i corpi intermedi di rappresentanza s’indebolivano. E senza attori, la società muore. Ha conosciuto la crisi del suo ceto medio produttivo ed è attraversata da forti disuguaglianze di genere, generazionali, tra nord e sud della regione, tra costa e interno appenninico che indeboliscono coesione e solidarietà. E i giovani se ne vanno… La terza è l’inesistenza della comunità regionale: poco o nulla è stato fatto per organizzare le reti municipali, superando tradizionali gelosie campaniliste.

La società “di sopra” marchigiana non ha saputo creare una comunità regionale, spostando il baricentro dal policentrismo frammentato municipale a una comunità regionale aperta alla modernità europea. Anche i legami tra territori e imprese e tra imprenditori e lavoratori si sono allentati e la vita comunitaria marchigiana da anni ha un incedere zoppicante e disorientato. Non andiamo bene neppure sulla seconda domanda. Infatti, questi anni sono segnati da una profonda crisi delle classi dirigenti marchigiane, non solo politiche. Non hanno saputo creare una reale coesione tra di esse, basata su una piattaforma condivisa. Non solo è mancata la relazionalità tra élite regionali economiche, politiche e culturali, ma si è anche bloccata una circolazione delle élite. I corpi politico-istituzionali sono diventati sempre più chiusi e autoreferenziali, con corti in cui prevale la fedeltà al capo più che il merito e la competenza.

Gli imprenditori, per lungo tempo il segmento dirigente più in vista e maggiormente propulsivo, si sono persi sugli allori e le vestigia del passato, per poi scontrarsi con una competizione sempre più tagliente e con un rovinoso passaggio imprenditoriale. Alla fine, il bene comune di questa regione è stato visto da tutti questi soggetti solo in funzione di un proprio vantaggio. Le élite sono rimaste tali, vale a dire oligarchie non contendibili, senza esprimere una vera e propria classe dirigente in grado di catalizzare una comunità regionale. La serenità si è persa e la fiducia nella creazione di nuovi attori non appare scontata sullo scenario regionale. In letteratura, è il problema dei change agents. Per uscire dalla penombra non saranno sufficienti le risorse europee né ottime idee, se non si creerà un telaio sociale etico e responsabile, robusto e coeso, in grado di valorizzarle e superare insieme il clima di profonda incertezza.

*

Sociology of entrepreneurship Univpm

© RIPRODUZIONE RISERVATA