E' sempre esistita, ma quando i prezzi iniziano a correre sicuramente si nota di più.
La shrinkflation, tornata al centro dell’attenzione nelle ultime settimane, è una tecnica adottata da alcune aziende per far scattare un rincaro – non immediatamente visibile – a carico dei consumatori. Una tecnica semplice, che consiste nel ridurre la quantità di prodotto venduto mantenendo però invariato il costo finale. Il termine inglese può appunto essere tradotto approssimativamente e in maniera meno sintetica come “inflazione da rimpicciolimento”. Se al supermercato compriamo un tubetto di dentifricio o un pacchetto di caramelle, magari non faremo caso al fatto che la confezione a cui eravamo abituati è diventata leggermente più piccola. E ancora meno al prezzo applicato. Ma gli incrementi possono essere significativi: ad esempio pagando un euro per 80 grammi di prodotto invece che per 100 si produce in un colpo solo un aumento del 25 per cento.
LO SCATTO
Del fenomeno si sono occupate le associazioni dei consumatori, particolarmente sensibili in una fase come quella attuale in cui l’indice Nic, su base annua, viaggia a una velocità a cui non eravamo più abituati, con un aumento oltre il 6 per cento. Questo andamento risulta trainato in larga parte dai continui scatti verso l’alto dei prezzi energetici, dal gas ai carburanti. Ma rischia ora di trasmettersi, almeno parzialmente, alla spesa di tutti i giorni. D’altra parte proprio in un momento in cui i costi di produzione rosicchiano i margini dei produttori, questi possono aver interesse a scaricarli sul consumatore finale, se possibile in modo occulto. Nel corso degli anni, anche l’Istat ha provato a fare qualche analisi.
LA RILEVAZIONE
In generale, le variazioni apparivano piuttosto frequenti: sul totale dei beni oggetto delle rilevazioni ne erano state verificate circa 12mila in poco meno di sette anni: di queste circa 7mila erano negative e quasi 5mila positive. Il quadro è stato poi aggiornato recentemente, e ora arriva al primo trimestre del 2021: dunque più vicino alla fase attuale, anche se nei primi mesi dello scorso anno non si era ancora manifestata l’impennata dei prezzi tuttora in corso. Vengono prese in considerazione le classi di prodotto che nel tempo sono state oggetto di più frequenti variazioni di quantità. In quasi tutti i casi, con l’eccezione degli indumenti, il cambio comporta una diminuzione: questa tendenza è particolarmente vistosa nella classe “Latte, formaggi e uova” (che comprende tra gli altri gli yogurt e i vari formaggi confezionati). Concentrandosi sulle riduzioni, l’Istat osserva che in oltre il 70 per cento dei casi portano a un incremento del prezzo effettivo. La musica è la stessa se si guarda a un’altra classe, quella degli “Altri apparecchi non elettrici, articoli e prodotti per la cura della persona: ne fanno parte ad esempio cosmetici, dentifrici e altri prodotti per l’igiene. Qui nel 76 per cento delle diminuzioni di quantità c’è stato un aumento del prezzo pagato dal consumatore, mentre solo nel 24 per cento la tendenza è stata quella contraria.
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