Sigillo dell’Ateneo a Carlo Pagnini: «Questa è stata la mia recita più bella»

Al centro il rettore Giorgio Calcagnini e il poeta Carlo Pagnini
PESARO «Questa è la recita più bella che ho fatto»: è emozionato, commosso, ma non perde la sua ironia Carlo Pagnini, insignito ieri del Sigillo...

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PESARO «Questa è la recita più bella che ho fatto»: è emozionato, commosso, ma non perde la sua ironia Carlo Pagnini, insignito ieri del Sigillo d’Ateneo da parte dell’Università di Urbino Carlo Bo, in una solenne cerimonia che si è svolta nel Salone Metaurense di Palazzo Ducale. Il prefetto Emanuela Saveria Greco ha lodato Pagnini, ricordandolo come grande poeta, attore e scrittore: «Ho sempre avuto grande ammirazione per chi riesce ad esprimere i sentimenti più profondi dell’animo umano. Pagnini riesce a condividere con semplicità il suo mondo interiore, è un esempio, un faro per ognuno di noi, uno sprone a superare le nostre insicurezze».  


I complimenti


E citando una poesia di Pagnini ha concluso: «Lei, signor Pagnini, è come il vento: sussurra i propri sentimenti alla gente, che ne resta avvolta come in un abbraccio». «Un pesarese dalla vena creativa unica, una persona speciale che sa tenere insieme cultura alta e approccio popolare, capacità tipica dei grandi artisti», ha detto il sindaco Matteo Ricci, complimentandosi con il neo “profesor”. «Nella sua vita ha studiato tantissimo: letteratura, poesia, musica. Poi il nostro dialetto, una lingua che dobbiamo continuare a tramandare, e ha saputo intercettare e raccontare l’animo popolare e l’identità positiva dei pesaresi». Poi il sindaco si è cimentato nella lettura di “Và”, la poesia che illumina via Castelfidardo. «Lo identifica. È semplice, ma con un significato profondo, che esprime il senso che ognuno di noi dà alla propria vita. Il sigillo dell’Ateneo è un riconoscimento che rende orgogliosa tutta la città. Caro Carlo, ti vogliamo bene». 

La motivazione


Nella motivazione, il rettore Giorgio Calcagnini ha evidenziato come «La sua è una poesia sorgiva che tra sbalzi e vertigini, conserva la forza arcaica delle pietre, restituendo una geografia umana indagata con ludica impudenza. L’uso del dialetto risuona come una musica familiare e quotidiana, una lingua materna, non consolatoria, ma che vuole difendere una civiltà dalla perdita continua dei sentimenti e dei valori veri». E Carlo, nella sua lectio magistralis “Trovare le parole: segni e suoni per raccontare le emozioni”, ha anche raccontato di quando, nel suo primo giorno di scuola, ha visto per la prima volta Palazzo Ducale e ha sottolineato «Questa storia del dialetto da abbandonare, non mi è mai andata giù, e si può dire che sia stato un po’ il filo conduttore di tutta la mia vita, se è vero che oggi sono qui anche perché questa specie di quieta ostinazione ha fatto di me, (aspetta, com’è ch’i à dett?) il “Testimone di una scienza popolare». 


Care parole


Per Carlo «Raccontare storie non sembra così difficile. Basta avere qualcosa da dire e le parole giuste per dirlo. E avere anche qualcuno a cui raccontarle. In realtà, costruire racconti è un lavoro artigianale, fatto di ispirazione, e di piccoli e significativi aggiustamenti. E, con la pratica, ci si accorge che le parole non sono tutte uguali: alcune sono più adatte e sembrano funzionare meglio. Ad alcune ci si affeziona. Una parola a cui sono affezionato è “gratitudine”. Questa parola esprime perfettamente quello che io sento oggi: immensa gratitudine». Ha concluso dedicando il prestigioso riconoscimento a sua moglie Pia (scomparsa 14 anni fa) e ai suoi figli. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico