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Parliamo in continuazione di lavoro. Il 44% degli italiani, secondo un sondaggio Gallup, alla domanda su cosa dia un senso alla loro vita risponde: «La mia professione».
Per molti rappresenta uno scopo esistenziale, ma a pochissimi dà felicità. In una classifica che fotografa 38 Paesi, siamo al primo posto per ansia, stress e tristezza da ufficio. Negli ultimi tre anni la fetta di chi aveva ambizioni che si sono infrante e si definisce «deluso» è cresciuta del 6%. La dimensione professionale è mutata radicalmente. «Innanzitutto le nuove tecnologie hanno annullato i confini tra vita lavorativa e vita privata. Inoltre i cambiamenti innescati dalla pandemia, e che adesso stiamo metabolizzando, sono irreversibili», afferma Francesco Morace, sociologo, saggista e fondatore del Future Concept Lab.
Morace, il lockdown è stato una forte scossa. Davvero non si tornerà più indietro?
«La nuova organizzazione del lavoro e il peso che le persone assegnano all’ambito professionale, nella singola scala di priorità, dureranno nel tempo. Perché incidono sulla dimensione valoriale di ciascuno di noi.
Questo nuovo bilanciamento è un fenomeno comune a tutte le generazioni?
«Ad alzare la posta in questo momento sono soprattutto i giovani, che spesso vengono bollati come fannulloni. In realtà la maggior parte di loro è più consapevole e contratta i vincoli, pretende maggiore libertà. E anche su questo non si torna indietro. I giovani preferiscono lavorare a progetto, che seguono direttamente assumendosene la responsabilità, e soffrono l’eccessivo controllo. Il problema semmai è nostro, dei boomer, che li giudichiamo pigri. Invece non riusciamo a cogliere questo modello di organizzazione che rifiuta un superiore che tiri la briglia, la loro propensione al nomadismo e a lavorare da remoto in ogni angolo del mondo. È una vera rivoluzione antropologica».
Poi ci sono gli insoddisfatti che si rifugiano nel cosiddetto “quiet quitting”.
«Non lasciano il posto ma tirano il freno, evitando straordinari e qualunque partecipazione emotiva. Il dipendente si impegna solo lo stretto indispensabile, compatibilmente con le ore definite dal contratto, non aderisce a progetti extra e rifiuta di assumersi ulteriori responsabilità. Fenomeno che è una conferma del fatto che serva ripensare i rapporti e creare nuove forme di coinvolgimento e interazione. È un aspetto del grande cambiamento del modo di lavorare: a chi opta per il quiet quitting non interessa fare carriera, sceglie di impegnarsi su singoli progetti. Prima di giudicare male questo fenomeno, bisognerebbe approfondirlo. Certamente dentro c’è di tutto, il confine con chi sfrutta lo smart working per non fare niente è molto labile, tuttavia questa tendenza va compresa e governata: rispecchia il nuovo modo di intendere il lavoro, che non è più basato sulla catena del valore e del potere gerarchico e impone alle aziende di ragionare in termini di ingaggio».
La tecnologia ha un ruolo determinante. Il lavoro sarà sempre più digitale mettendo in secondo piano i rapporti umani?
«Con la tecnologia risparmiamo tempo, perché la digitalizzazione semplifica l’esistenza. Si pensa che più siamo digitali più siamo disumani. Invece non è così. Basta guardare quanto sono pragmatici i ragazzi: il tempo liberato grazie all’aiuto delle nuove tecnologie lo usano per vivere».
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