Una resa dei conti interna al Partito democratico marchigiano che finirà per far rotolare la testa del capogruppo regionale Maurizio Mangialardi, ritenuto responsabile della diffusione del dossier - portato sul tavolo della leader nazionale Elly Schlein - con cui veniva criticato l’operato della segretaria regionale Chantal Bomprezzi.
Ieri nella Casa del popolo di Ancona, location delle più sanguinose battaglie tra dem, la testa di Mangialardi è stata messa sul ceppo.
Il bersaglio
Ma nel mirino è finito solo Mangialardi, particolarmente inviso alla maggioranza dem anche per il suo legame a doppio filo con il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, che sogna da governatore ma rischia di scontrarsi con una segreteria avversa (tra i principali consiglieri di Bomprezzi ci sono i suoi storici nemici: Alessia Morani, Luca Ceriscioli e Francesco Comi). Ieri, nella sua relazione iniziale, Bomprezzi non ha portato solo il dossier come freccia all’arco per spingere Mangialardi al passo indietro: ha parlato di una incomunicabilità con il capogruppo e di un rapporto ormai troppo complicato per poter andare avanti. Gli interventi che sono seguiti a quello della segretaria sono stati dello stesso tenore: Mangialardi deve fare un passo indietro. Alla fine, l’assemblea si è espressa in maniera praticamente unanime sulla questione: dimissioni.
Il regolamento dem, però, non prevede che il capogruppo rimetta il suo mandato all’assemblea, alla direzione o agli organi di partito. Deve essere sfiduciato dallo stesso gruppo regionale che guida. Al momento, su 8 consiglieri, 5 si sono sempre schierati dalla sua parte (oltre ai quattro che hanno portato avanti con lui il blitz romano, anche Fabrizio Cesetti), mentre Antonio Mastrovincenzo e Romano Carancini, che al congresso hanno sostenuto Bomprezzi, ormai mal digerivano la sua leadership a Palazzo Leopardi. Con questi numeri, si dirà, Mangialardi ha la maggioranza del gruppo dalla sua, giusto? Sbagliato.
Di fronte ad un partito che a larghissima maggioranza chiede una sua retrocessione, difficilmente i consiglieri vestiranno i panni dei vietcong nella giungla, pronti a combattere all’ultimo sangue, rischiando di compromettere la loro posizione per eventuali cariche future. Più probabile che qualcuno tradirà e voterà la sfiducia: ne bastano due, che andrebbero a sommarsi a Mastrovincenzo e Carancini mettendolo in minoranza.
Benché Mangialardi abbia intenzione di vendere cara la sua pelle e non abbia ancora sciolto la riserva sull’intenzione di rimettere il mandato da capogruppo, ai suoi avrebbe confidato: «Non si resta a dispetto dei Santi». Messo all’angolo, alla fine il passo indietro lo farà. Venendo caricato di tutta la responsabilità del blitz, potrebbe essere l’unico dei ribelli a pagare anche in termini di ricandidature. Con le Regionali tra un anno, la sua strada verso la riconferma tra i banchi di Palazzo Leopardi si fa decisamente in salita. La sintesi: ieri la maggioranza dei presenti alla Direzione Pd ha chiesto «unità ed un gesto di responsabilità al capogruppo per avviare una nuova fase», votando il documento con 23 voti favorevoli, zero contrari (la minoranza non ha partecipato al voto). Di fronte al tentato golpe miseramente fallito, ora la minoranza del partito si lecca le ferite: già in diversi hanno preso le distanze dalla mossa dei cinque consiglieri regionali - Ricci su tutti - e sono in atto riposizionamenti interni. Alla fine a rimanere con il cerino in mano è stato Mangialardi. Vittima sacrificale che pagherà per tutti.