Oggi, per la Coldiretti, ci sono 317 allevamenti di coniglio nelle Marche. Un dato più che positivo, considerando che nel 2019 erano soltanto 113, anzi travolgente se non fosse che quel +280% non fotografa correttamente il settore. Come non lo è quel +11,9% dei consumi nel 2020 a cui nel 2021 si sono aggiunti ulteriori due punti.
Partendo da uno studio della Nielsen, l’Ismea spiega che si tratta, con le misure per contrastare i Covid-19, del “travaso” nelle pentole domestiche della carne cunicola che prima si consumava fuori casa.
Disinteresse dell’allevatore
Alberto Miconi ha fondato il suo allevamento nel 1984 a Sant’Angelo in Pontano. Anni d’oro per il coniglio. Era stata scoperta la tecnologia dell’inseminazione artificiale che ha razionalizzato i cicli produttivi. Adesso rifornisce il mercato annualmente di circa 40mila unità «perché – afferma - di più non assorbe». Purtroppo, il settore è molto depresso. L’aumento dell’offerta lo ha portato alla sovrapproduzione ma non avendo studiato azioni specifiche per adeguare i consumi, è andato in crisi. Il che, tra il 2006 e il 2008, ha fatto crollare il numero degli operatori della filiera (mangimisti, macellatori, centri di lavorazione carne, distributori). «Siamo davvero rimasti in pochi – afferma Miconi – e così non siamo riusciti a fare massa per attirare l’attenzione né della politica, né della ricerca». Svela che nessuna industria, si è impegnata nella ricerca di mangimi innovativi, che il coniglio è un animale molto delicato, che richiede tante cure e molte consulenze esterne specializzate ed infine che «i costi, negli anni, hanno mangiato il reddito e scoraggiato gli investimenti». Una carne che non ha un prezzo fisso ma segue le stagioni. Il chilo di carne di coniglio vivo sale in autunno e d’estate è sotto prezzo. «In media – precisa – si aggira intorno ai 2 euro mentre garantire 2,50 darebbe i margini per programmare un nuovo futuro». Un pensiero positivo che richiede grinta nelle Marche: nel 2015, la Coldiretti regionale aveva denunciato un calo di produzione del 73% con il numero dei conigli da 798mila capi sceso a 230mila.
Disaffezione del consumatore
Mentre è sulla “disaffezione” del consumatore finale che l’azienda agricola Santo Stefano di Arcevia ha scelto di lavorare. Sul disamoramento legato non al sapore ma ai tempi di preparazione della carne cunicola che non si adeguano alla fretta della cucina di tutti i giorni. Lo dimostra il successo delle ricette tipiche e tradizionali a base di coniglio in salmì o ripieno degli chef e agrichef e, quindi, spiega il perché, secondo l’Ismea, «è la carne che più delle altre ha sofferto della mancanza di sbocco nel canale Horeca in questi ultimi due anni».