Kalambay sta alla boxe '80-'90 come Sinner sta al tennis di oggi: «Grazie a noi anche questi sport sono tornati pop: spettacoli da prima serata»

L'ex campione del mondo oggi vive a Chiaravalle e sogna l'Olimpiade con la Nazionale Azzurra: l'intervista esclusiva

Sumbu Kalambay, campione di boxe degli anni '80: «Da sempre sul ring e ora sogno l’Olimpiade»
Sumbu Kalambay, campione di boxe degli anni '80: «Da sempre sul ring e ora sogno l’Olimpiade»
di Gianluca Murgia
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Sabato 30 Dicembre 2023, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 16:07

La risata, larga e potente, interviene tra un aneddoto e una riflessione come la sirena al termine di una ripresa. Parlare con Sumbu Patrizio Kalambay è come salire su un ring degli anni ’80: pare di sentire le telecronache di Rino Tommasi e Mario Mattioli, i palazzetti di Pesaro e Ancona stracolmi, Berloni e Totip a far girare quattrini veri e la nobile arte promossa a spettacolo da prima serata. 

Kalambay, lei è stato per il pugilato italiano quello che Sinner è oggi per il tennis: ha (ri)reso questo sport trasversale, pop, amato da tutti.

«Sì, ma non ho contribuito solo io. L'Italia aveva parecchi pugili e tutti molti forti. Stecca, Damiani e Oliva per esempio. Poi grandi manager (come Ennio Galeazzi, ndr) e promoter (come Rodolfo Sabbatini, ndr). Era facile vedere in Tv incontri al pomeriggio e di sera».

Sul profilo di whatsapp ha una sua foto da bambino e quella di suo nipote. Siete uguali. Gli insegnerà la boxe?

«Mio nipote ora ha 9 anni, lì era più piccolo. Buon sangue non mente: a casa ha un punching ball, mi imita, è bravo ma gioca a calcio come suo padre».

Anche a lei piaceva il calcio.

«Giocavo portiere anche nella nazionale italiana pugili».

La chiamavano professore del ring. Oggi, non a caso, insegna la boxe.

«Sono collaboratore della Federazione Pugilistica per Elite e Under 22. Abito a Chiaravalle ma da 4 anni sono spesso al centro federale di Santa Maria degli Angeli. Mi piace il lavoro di squadra, io trasmetto quello che ho imparato».

Il talento da cosa si riconosce?

«La voglia di arrivare la vedi quando si allena e come vive. Questo sport richiede sacrifici».

Ma c’è ancora chi ha voglia di allenarsi duro?

«Per i ragazzi che seguo è un lavoro, sono quasi professionisti. Un grande aiuto al movimento arriva dai gruppi sportivi, chi riesce ad entrarci ha l’opportunità di allenarsi senza dover lavorare fuori».

Lei fa ancora “i guanti”, sale ancora sul ring per divertimento?

«Non ho più l’istinto di schivare i colpi»

Come ha iniziato a fare pugilato? Ha inciso The Rumble in The Jungle, nell’allora Zaire tra Alì e Foreman?

«Il pugilato andava molto in quegli anni. Io ho iniziato per strada, nei vicoli. Incontri tra amici con guanti prestati».

In Italia come è arrivato?

«Ero stato in nazionale, dovevo venire in Italia dopo le Olimpiadi di Mosca del 1980. Avevo già i biglietti. Invece, quei giochi furono boicottati e si inventarono una mini olimpiadi, in Kenya, con stage di un mese in Gabon».

Poi?

«Finalmente arrivai in aereo a Roma con un amico.

Dovevamo andare ad Ancona ma non sapevamo dove si trovasse. Telefonai al mio manager, era domenica e rispose un bambino. Lui diceva “Pronto”, io “Hello”. Non ci capimmo».

E come arrivò nelle Marche?

«Con un taxi abusivo, una Fiat 600 guidata da uno straniero che non sapeva neppure lui come arrivare. Le strade non erano come oggi. Dopo 5 ore, città dopo città, arrivammo. Due giorni dopo ero già sul ring».

La storia del suo nome, Patrizio, sembra uscita da un film: in onore di Oliva, suggerito dal giornalista Mattioli. Però suo padre si chiamava Patrice, suo figlio Patrick. Tutto torna.

«Sembrava fatto apposta. Sono diventato italiano dopo che mi sono sposato con una italiana. Ho risposto pure alla chiamata militare ma ho ricevuto il congedo perché ero già padre».

Oggi quanto si sente italiano e quanto africano?

«Mi sento sempre uguale. Mi sono sempre sentito a mio agio. Anche perché la gente mi ha sempre voluto bene».

Chiaravalle e le Marche, specialmente in questo periodo dell’anno, sono quanto più di distante dall’Africa.

«Io qui mi sono trovato bene dall’inizio. Mi sono inserito subito. E amo la cucina marchigiana, vado matto per lo Stoccafisso all’anconetana. Preparo la pizza e una gran carbonara di pesce».

Torna ogni tanto a Lubumbashi?

«Dopo 24 anni sono tornato lo scorso dicembre ma è cambiato tutto, hanno costruito tanto. Per fare 5 km, due ore di auto. Meglio andare a piedi ma non ricordavo neanche la strada di casa mia. Si sta meglio nelle Marche».

Ha mai subito episodi di razzismo?

«Non ci ho mai fatto caso, tutti mi hanno sempre voluto bene, ancora oggi. Ieri sono andato all’ospedale a ritirare delle analisi di mia suocera e la segretaria quando ha letto il mio cognome mi ha detto: “Ma lei è il pugile”. Capisci, si ricordano di me pure le donne».

Per la sua carriera, fondamentale, la sua vittoria a Londra su Graham.

«Avevo già vinto il titolo italiano ma perso l’incontro per l’Europeo ad Ancona. Pensavano tornassi da Londra su un materasso invece l’ho sdraiato io. Carriera corta ma intensa».

Quale incontro vorrebbe ricombattere?

«Contro Michael Nunn a Las Vegas. Mi sarebbe piaciuta la rivincita ma lui poi ha avuto problemi con la giustizia».

Prossimo impegno?

«Da gennaio lavoriamo per le nuove qualificazioni per le Olimpiadi di Parigi. Abbiamo già 4 ragazzi qualificati, speriamo di portarne altri. Si combatte a marzo, a Milano».

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