Flavia Giombetti, assessore post sisma: «Smalti e Barbie? Sì, ma ero un osso duro»

Flavia Giombetti, assessore post sisma: «Smalti e Barbie? Sì, ma ero un osso duro»
Flavia Giombetti, assessore post sisma: «Smalti e Barbie? Sì, ma ero un osso duro»
di Valentina Berdozzi
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Domenica 3 Marzo 2024, 05:00 - Ultimo aggiornamento: 22:52

I diminutivi, in qualche modo, sono la misura della nostra infanzia. Tutto quello che è grande, a contatto con un bambino, assume proporzioni tali da entrare nelle mani piccole e negli occhi grandi di chi il mondo lo guarda dal di sotto di un metro di altezza. Perché deve entrare tutto lì, nel cosmo compresso di chi il mondo dei grandi lo scopre poco a poco, prendendolo a piccole dosi. Sorsi minuti di un universo che si fa a misura di piccoli grandi cuori, dove non esistono case ma solo casette, dove ci sono gattini e non gatti e dove Flavia Giombetti non è l'assessore alla ricostruzione post sisma del comune di Tolentino ma, semplicemente, Flavietta. «Era così che mi chiamavano a casa, perché mangiavo poco ed ero gracile - comincia - era il soprannome adatto a una bimba dai bellissimi capelli lunghi, che curava il suo aspetto e ci teneva a presentarsi al mondo con un certo decoro. A cominciare dalle unghie».

Le unghie

«Quando con mamma andavamo a casa di zia Rosanna, ribattezzata da me zia Cicci, la prima cosa che chiedevo era di colorarmele, perché tutte le volte rimanevo estasiata a vedere le sue mani sempre impeccabili. La cura per il mio aspetto era una costante, che rimaneva la stessa in ogni momento dell'anno. In famiglia gira ancora il ricordo delle mie maschere di carnevale: vestiti perfetti e altrettanto inappuntabili abbinamenti di bijou giocattolo, con lunghe collane di perle arrotolate al collo e vistosi orecchini. Insomma, nulla veniva lasciato al caso, neanche quando l'abbigliamento non era il mio ma quello delle mie Barbie. Ancora ricordo quando, con mia cugina Francesca, passavamo i pomeriggi a creare, con il prezioso aiuto di mamma Evelina e di nonna, abiti per le nostre paladine glamour partendo da pezzi di stoffa trovati in casa o dai nostri vecchi vestiti. Il sapersi ben conciare è sempre stata una questione di dna». Per una Flavietta tutta fiocchi e cotillon, però, la memoria restituisce anche un altro lato, «sicuramente molto meno etereo e ben più ribelle». Il ritratto che si compone ha tante sfumature e mille interpretazioni: c'è la bimba principesca, quella che adora tutto ciò che è cura e attenzione. E, poi, c'è il suo risvolto rock, «il maschiaccio - ride Flavia - quella che giocava sotto casa con gli amici maschi ed era un osso duro quando si trattava di dividersi in squadre e vincere l'avversario a colpi di bacche di siepe usate come arma».

Sarà un caso, allora, quel regalo chiesto alla mamma da piccolissima, quel ricordo sopito eppure presente, a conferma di quanto sia stata da sempre poliedrica la Flavietta di allora, esattamente come la Flavia di oggi. «Non me ne ricordavo più, è stata mia madre a riportare a galla dai ricordi quella pistola che le chiesi proprio io come premio. Dice mamma, che all'epoca con sorpresa recepì l'atipica richiesta e nonostante tutto seguì alla lettera il mio desiderio, che di quell'arma sono sempre stata gelosa, fino alla soglia della maturità e forse pure oltre» ride. Certi ricordi sono come un ronzio nella testa: una volta raggiunto il nostro orecchio, tacitarli è impossibile. Parla di anni lontani quella pistola: racconta dei pomeriggio sotto casa quando, «per giocare a nascondino con gli amici, ho inavvertitamente infilato un piede in un nido di vespe e sono tornata a casa piena di punture, con le vespe incastrate tra i capelli e il loro ronzio che mi ha accompagnato per tutta la sera, lasciandomi addosso un terrore per tutto ciò che vola che ancora mi accompagna».

L’istinto

E, infine, parla di una bimba che ha sempre seguito il suo istinto e il suo cuore, a costo di camminare costantemente in direzione ostinata e contraria. Come quando, ad esempio, innamoratissima della Roma per imitazione dell'inseparabile cugina Francesca, «ero pazza di Giannini, forse più per il suo bell'aspetto di giovane atleta che per il gioco espresso in campo». Oppure come quando, «negli anni dei Duran Duran o di Miguel Bosé, le pareti della mia camera non accoglievano i loro poster, come in tutte le case delle teenager d'Italia. Io adoravo circondarmi di panorami esotici e viste su atolli dal mare cristallino, che mi procuravo andando in tutte le agenzie viaggi della mia zona e portandomi a casa vecchi cataloghi e depliant con offerte oramai obsolete. Guardarli mi piaceva e mi rilassava e donava al cuore in fiamme della ragazza ribelle sempre in conflitto con il padre, un po’ di tregua e sogni nuovi».

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