Noi uomini, cominciamo a dar voce al nostro imbarazzo di fronte agli abusi sul corpo delle donne

Lo stato d'animo che dovremmo interiorizzare e poi esplicitarlo come un cromosoma nuovo

Noi uomini, cominciamo a dar voce al nostro imbarazzo di fronte agli abusi sul corpo delle donne
di Alvaro Moretti
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Mercoledì 27 Settembre 2023, 12:22 - Ultimo aggiornamento: 28 Settembre, 23:17

Lo sdegno se ne va via presto. Tende a scivolare sui vestiti come pioggia.

E la vergogna, intesa come parola e non come moto dell’animo, è ancora più deperibile se la applichiamo ad un titolo di giornale e non ad una nostra esperienza personale. C’è una parola, più di tutte quelle che gli uomini dovrebbero interiorizzare – previamente, preventivamente – come stato dell’animo quando approcciano alla comunicazione sul corpo abusato delle donne. E quella parola è imbarazzo: in questi mesi abbiamo sentito, visto, letto cose davvero orribili. Quotidianamente riportiamo, sempre meglio come cronisti a dire il vero, le storie di donne uccise o maltrattate da compagni che non sanno elaborare la fine di una storia, che hanno perso ogni imbarazzo nell’approcciare a persone che una volta amavano (così spesso dicono) e sono passati oltre, ben oltre. Io da uomo e con gli uomini, di ogni età, vorrei prendere il discorso dall’inizio.

Nei giorni scorsi il racconto di una delle donne abusate dallo stupratore-netturbino parlava con enorme fastidio e puntava il dito proprio su quell’imbarazzo mancato e di certo non agito della chat dell’abusatore con i suoi amici (immaginiamo tutti maschi). Quell’imbarazzo non provato o non espresso con il rifiuto di termini e linguaggi pericolosi nei confronti di donne oggettificate. Quell’imbarazzo che dovrebbe scattare nello spogliatoio del padel o del calcetto; di chat anche meno spinte di quelle del netturbino-stupratore seriale. La vittima lamentava che quei messaggi erano una dichiarazione di reità, che sarebbero dovute finire in un esposto alle forze dell’ordine. Immaginiamo, però, che al rapporto estorto e filmato ci si arrivi per gradi (non mi ci sono mai trovato in una chat così: scelgo, abbastanza bene, le chat da frequentare). Immagino che in quel gruppo ci sia molta gente – che ora deve provare ribrezzo, sdegno, vergogna per il pessimo uomo che è a stare in contatto con un tale soggetto – che si trovi a disagio, in imbarazzo appunto.

Poco più di un anno fa su queste colonne, realizzammo una importante intervista ad uno dei simboli maschili più ammirati e amati dello showbiz italiano, Stefano Accorsi. Si partiva da un suo atto concreto contro il patriarcato: da responsabile del teatro La Pergola di Firenze si rifiutava di partecipare ad un cda totalmente privo di figure femminili.

Eppure il pubblico teatrale è in maggior parte composto da donne. Poi nel dialogo ci siamo trovati a condividere un momento che era quello che chiameremo del calcetto: esperienza comune proprio l’imbarazzo di trovarci con amici che sciorinavano improbabili prestazioni sessuali, che ridicolizzavano le donne, che le trattavano – se non come merce – almeno come esseri inferiori. A casa, probabilmente, per molti di loro le cose andavano in modo differente. Eppure – sfuggendo alla lettura dell’epifenomeno (violenza, stupro, abuso, stalking, vessazione, gender gap) – proprio in quell’imbarazzo confessato tra me e Stefano c’è una prima potenziale risposta.

Esplicitiamolo, quell’imbarazzo, come tratto maschile aggiunto: un cromosoma nuovo, da maschi a cui piace tanto vivere con le donne e poter con loro dialogare. In quell’intervista ci eravamo lanciati un’idea: ci sembrava buona. Portare nelle scuole maschi che sanno comunicare nel modo giusto la propria mascolinità (compresi quegli imbarazzi) e che possano essere un esempio per ragazzi più giovani. A dire il vero, i fatti di Palermo e Caivano, gli stupri di Capodanno a Primavalle o certe morti e il ripetersi di condotte gravissime mi sta facendo riflettere su un altro tipo di approccio maschile al problema. Certe cose capitavano anche prima, ma se ne parlava molto meno; si derubricavano più facilmente; e sopratutto non venivano validate in mondovisione con i social. Questo è un dato di fatto, ma – con tutte le storture del caso, le protezioni assurde dei genitori degli abusanti, le sentenze incredibili – c’è un sistema di punizione che entra in azione. Sappiamo che ad accompagnare le punizioni, che ci sono, spesso ci sono percorsi di riabilitazione obbligatori. Stanno crescendo di numero e competenza i centri per uomini (e ragazzi) maltrattanti. Ecco, in quel percorso un passo fondamentale, potrebbe essere per gli adolescenti quello di vedere accanto a loro, con la vergogna e il peso della punizione scritta in faccia, qualcuno di quei ragazzi che all’imbarazzo iniziale non hanno dato ascolto – almeno – allontanandosi dall’abisso del crimine. Si chiama educazione tra pari (peer education) e chiama in causa ragazzi che mettono in comune con gli altri le proprie esperienze. E quelli segnati (ben più utili, a mio avviso, i carnefici che le vittime) possono provare a mettere insieme agli altri le lancette dell’orologio emotivo indietro a quel primo moto d’imbarazzo. Segnalarlo come l’inizio di un film che può finire molto male per tutti. In questo mio discorso ho parlato poco dei genitori: possono molto cambiando le loro relazioni familiari (ma questa sarebbe una rivoluzione vera), ma molto meno di quanto si possa credere per quanto riguarda l’abuso sessuale. Qui conta quello che ti dici in quello spogliatoio, nell’ora di ricreazione, nelle notti troppo presto troppo lunghe. 

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