PESARO - Lui è Michele Cecchetti, 55 anni pesarese, manager di un gruppo multinazionale con sede a Forlì, colpito dal coronavirus e ora in miglioramento. Lui si...
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«C’è bisogno più che mai - dice – di fare tamponi in modo capillare, fra chi è ancora nelle proprie case malato e altri asintomatici, che magari sono stati a contatto con casi positivi, ricoverati e dimessi dall’ospedale. Nei giorni precedenti all’esplosione del virus a Pesaro c’era scarsa consapevolezza di ciò che accadeva al nord e che avrebbe travolto anche la nostra realtà».
La lotta contro il virus per Michele Cecchetti è iniziata il 4 marzo. «Mi sono ritrovato in casa e ammalato per dieci giorni - racconta – il paradosso incomprensibile delle fasi iniziali dell’emergenza, può essere riassunto nelle parole del mio medico di famiglia. Alla mia chiamata ha risposto di non riuscire a visitarmi perché sprovvisto dei dispositivi di protezione e avrebbe rischiato anche lui di ammalarsi. Il 14 marzo vengo ricoverato al San Salvatore ma anche qui l’iter è stato complicato, prima le chiamate al 118, dove mi è stato riferito dai sanitari di allertare il mio medico di base, fino a quando ho iniziato a peggiorare nel giro di poco. Per fortuna le mie condizioni non hanno richiesto l’intubazione ma sono rimasto con una maschera che mi somministrava dell’ossigeno in sub intensiva e poi cinque giorni in Medicina d’Urgenza». Ora Michele è uscito da alcuni giorni dalle sale del San Salvatore, ed è a casa in isolamento in attesa del tampone di verifica, prima di dirsi veramente guarito. «Ci sono tante famiglie come la mia, dove ci sono stati comunque contatti o fra familiari o fra conoscenti positivi e sintomatici. Eppure anche dopo il mio ritorno a casa, nessun tampone è stato eseguito ai miei familiari più stretti né ad altri conoscenti con i quali sono venuto a contatto prima del mio ricovero. Da questo brutta esperienza che fortunatamente posso raccontare, mi sento di dire che se preso in tempo e subito diagnosticato, da questo virus ci si salva, ma non si può rimanere a casa malati e con difficoltà a respirare per una settimana o dieci giorni, senza sapere chi deve visitarti e senza nemmeno avere la possibilità di fare un tampone, che ti consenta di accertare se sei positivo o se nel frattempo hai contagiato un tuo familiare. Purtroppo chi vive solo o non ha la giusta assistenza rischia veramente di non farcela. C’è la necessità più che mai che il sistema proceda con i test a fine quarantena».
Cosa non si dimentica
C’è una cosa fra le tante che Michele non potrà dimenticare: «Gli infermieri delle sale di sub intensiva intorno a me erano tutti bardati, impossibile riconoscerli, ma proprio in quei giorni in cui ho temuto il peggio, la speranza è arrivata proprio da loro. Per fortuna ero cosciente, e ricordo che ogni paziente delle semi intensive, era chiamato per nome. Un particolare questo che dimostrava vicinanza, affetto e calore umano per affrontare con coraggio la malattia e vincerla». Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico