La nuova complessità sociale spiegata con la morte assurda di una ragazzina

La nuova complessità sociale spiegata con la morte assurda di una ragazzina
Dopo la morte di una bambina palermitana di dieci anni in una...

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Dopo la morte di una bambina palermitana di dieci anni in una “Tik Tok Challenge”, il Garante della Privacy, adottando un provvedimento d’urgenza, ha stabilito il blocco immediato dell’uso dei dati degli utenti da parte di quella piattaforma per scarsa attenzione alla tutela dei minori. Deludenti i commenti di psicologi, pedagogisti ed altri “Mangiafuoco” dell’emergenza, impegnati a notificare il presidio che lo specialismo istituzionalizzato cerca di mantenere in aree del disagio giovanile ormai chiaramente fuori controllo. Velleitari i tentativi mediatici di riassorbire lo scandalo nell’ovvio, («se non ha l’età, i social possono attendere» afferma lo spot realizzato per sensibilizzare i genitori sul tema della tutela dei giovanissimi sui social network), dato che la società come sistema emergente, da un lato configura il sistema di personalità e, dall’altro, ormai propone logiche opposte ai bisogni di chi ci vive dentro. Forse le parole del poeta Antonin Artaud su Vincent van Gogh squadernano la dignitosa frustrazione di chi, rassegnandosi ai tanti eventi simili a quello citato, accetta l’elusiva filigrana del senso celato dal parossismo dell’evento e dall’opacità del contesto. «Van Gogh non si è suicidato in un impeto di pazzia (…) ce l’aveva appena fatta scoprendo cos’era e chi era, quando la coscienza generale della società, per punirlo di essersi strappato ad essa, lo suicidò». I commentatori hanno abilmente spostato il focus della vicenda siciliana dalla scomoda accettazione del vulnus costituito da eventi tragici dove dis-abita lo spirito, alla proiezione sacrificale sulla prospettiva terapeutica riguardante una terzietà –anonima e gemente - che riceve gli organi espiantati alla ragazzina. Si è trattato di un abile quanto osceno rovesciamento di tensione, giocato sulla pro-socialità garantita da una donazione salvifica che allo stesso tempo occultava la necessità di associare l’assurdità della perdita alla misura anti-umana della struttura sociale. Nelle parole del grande sociologo Giuliano Piazzi: «Informazioni al posto del sapere, sia dentro che fuori l’individuo; sia nel corpo che nel cervello che nella cultura. Pian piano le cose vengono ripulite della storia che le ha portate fin dentro gli esseri umani. Non più vincoli normativi, né distinzioni forti, al loro posto solo software». Un giovanissimo giocatore di challenge così definisce gli effetti dell’asfissia ormai prossima: «Battito delle arterie, rumori come di una pompa alle tempie, sfarfallio della luce; poi, sensazione immediata che il gioco sia finito, e rapida ricapitolazione della mia vita fino a quel giorno». Ecco il patibolo digitale su cui una giovane vita è stata “suicidata” dalla società degli individui, all’interno di un doppio controllo sociale che, muovendo dalle sue competenze relazionali estroflesse dai social, finiva per concludersi con una disseminazione/riattribuzione del corpo della bimba, sancita dalla complessa macchina decisionale medico-politica. Se la mancanza di ossigeno connota la devastazione corporea da Covid 19, da qualche anno a questa parte le pratiche d’asfissia – assai frequenti tra giovani e giovanissimi – dicono l’agonia dell’interiorizzazione di modelli umani degni di questo nome, sovente travolti da pratiche ludiche di banalizzazione del limite. Come ignoriamo le geografie sempre nuove della contingenza sociale, dei suoi giochi linguistici e precipitati relazionali, ignoriamo il numero reale dei ragazzini che muoiono o si salvano in extremis praticando questi challenge. Tra loro c’è chi vive situazioni di disagio e cerca di scomparire in maniera intermittente, ipnotizzato dalla roulette russa dell’assurdo, in attesa di un urto che faccia sentire ancora vivo il proprio corpo. Altri invece, sono spinti dal gusto di esplorare ciò di cui si sentono capaci, seguendo una logica tipicamente adolescenziale che muovendo dalla sensazione sovrana nel bastare a sé stessa, spesso dilaga oltre la possibilità di fare ritorno, magari davanti ad un pubblico di annoiati osservatori. Spesso il fiero cimento accade all’interno di una sfida social, ovvero competere per una nicchia identitaria e per mantenere inalterato il criterio normalizzato di differenza (essere valutati in più o in meno) alimentato dalla rapida ricerca di sensazioni e dalla condivisione con gli amici di momenti fatali, al riparo dallo sguardo sanzionatorio degli adulti. Non si trattava di solo di un gioco, ma di una inserzione del sé in una serie di pratiche sociali conformi alle attese dell’immaginario giovanile, rispettando il criterio per cui la vita non vale in sé, ma per ciò che la riempie e la determina relazionalmente da fuori, per ciò che deve lasciare trapelare oltre sé stessa, nella trama di interazioni e di metafore sociali in cui viene inserita. Sulle troppe morti assurde non resterà che operare una sorta di conversione sociale del cordoglio in encomio, costruendo una rappresentazione utilitaristica del positivo a partire dal negativo, con una vittoria medica (pur significativa) che si attiva comunque a partire da una cocente sconfitta collettiva. I giochi d’asfissia rinviano ad una ricerca deliberata di perdita della conoscenza, maturando una compulsiva insofferenza per la norma biologica profonda che precede ogni possibile accesso a nuova contingenza ed al suo favoleggiamento dell’oscena promiscuità tra vivere e morire. Chi sembra giovarsene è il criterio darwinistico dello “spreco necessario” che amplifica l’anonimato autofagico della società dell’indifferenza. «Si introdusse dunque nel suo corpo, questa società invasata e, come un’inondazione di corvi neri nelle fibre del suo albero interno, lo sommerse con un ultimo sobbalzo e, prendendo il suo posto, lo uccise». Ai prossimi commenti di psicologi, pedagogisti, ecc.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale 

 

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Corriere Adriatico