Mito Cruijff: i capelli alla beat generation, il calcio totale, la finale (persa) del '74

Mito Cruijff: i capelli alla beat generation, il calcio totale, la finale (persa) del '74
di Giulia Aubry
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Giovedì 24 Marzo 2016, 15:04 - Ultimo aggiornamento: 25 Marzo, 09:09
Prima di Gullit. Prima di Van Basten. Prima di Rijkaard. L'Olanda era lui. Per chi ha vissuto gli anni '70 persino il colore arancione era associato a quel calciatore magro, con la capigliatura beat e l'atteggiamento un po' antipatico e scostante di chi sa di essere diverso da tutti gli altri.

Perchè Johan Cruijff ha davvero cambiato il calcio ed è diventato un'icona dello sport più popolare al mondo. Come Pelè prima di lui. Maradona anni dopo. Ma persino nei confronti di questi miti indimenticati e indimenticabili, il giovane olandese - nato a Betondorp alla periferia di Amsterdam - ha saputo differenziarsi. Cruijff è stato infatti il primo a diventare famoso con un numero che non andava dall'1 all'11. Non gli bastavano i ruoli già definiti. Lui era oltre. Fino al 14 che lo ha accompagnato per tutta la carriera calcistica e che neanche suo figlio - Jordi, decisamente meno dotato dell'illustre genitore ma capace, comunque, di vincere un campionato spagnolo nelle fila del Barcellona - ha osato ereditare. Quattordici come gli anni che Cruijff aveva quando vinse, con l'Ajax, il suo primo titolo giovanile. Da allora sono venute tre Coppe dei campioni con il suo Ajax, una con il Barcellona, tre palloni d'oro e decine di titoli nazionali, eruropei, intercontinentali la cui lista sembra infinita.

Ma all'appello manca il trofeo più ambito. Quello che il 7 luglio 1974, all'Olympiastadion di Monaco di Baviera, avrebbe dovuto suggellare la vittoria definitiva del calcio totale. La Coppa del Mondo. Ma dall'altra parte del campo c'era la Germania di Franz Beckenbauer. La squadra dei panzer tedeschi. Più chiusa, meno bella ma straordinariamente solida. L'azione combinata, il gioco totale e spettacolare - che avrebbe avuto decine e decine di tentativi di imitazione nei decenni a seguire - dovette fermarsi. Sotto di due gol a uno (nonostante ad aprire le marcature fosse stata proprio l'Olanda su un rigore assegnato per un'incursione in aerea di Cruijff) al novantesimo, contro ogni pronostico della vigilia. Un risultato che ha privato Cruijff di quel riconoscimento cui ogni calciatore, sin da quando comincia a giocare nei pulcini, aspira. Come successe anni più tardi al nostro Roberto Baggio, personaggio molto diverso dall'olandese, ma ugualmente atipico in un mondo, come quello del calcio, che tende comunque a standardizzare i propri protagonisti. E come lui fermatosi al secondo posto della Coppa del Mondo. Entrambi con le braccia sui fianchi al fischio fnale. Il primo più freddo, come si deve a un olandese. Il secondo in lacrime. Come Baggio (e Maradona, e Pelè...) Cruijff ha diviso l'opinione pubblica, gli allenatori, i cronisti. E' stato amato e criticato. Osannato e demonizzato. Qualche volta dagli avversari. Qualche altra dai suoi stessi compagni.

Nel 2004, è stato eletto sesto olandese più grande della storia. Dopo capi di Stato, eroi di guerra, artisti come Van Gogh. E come Van Gogh è stato un artista. Un artista incompiuto a causa - o nonostante - quella che è stata chiamata "la grande utopia dell'Arancia Meccanica". Lui era il profeta del calcio totale, il sacerdote di una nuova religione calcistica. Quella che avrebbe ispirato il grande Milan di Arrigo Sacchi e dei tre olandesi, eredi della maglia arancione già indossata da Cruijff. Carismatico come Pelè e Maradona, ma più leader di loro all'interno della sua squadra. Che si trattasse della nazionale, dell'Ajax o del Barcellona, poco importava. Come loro un divo, una stella. Ma più schivo, quasi al limite dell'antipatia e della scostanza. Sarebbe potuto essere scambiato tranquillamente per un cantante inglese o americano di qualche band alternativa degli anni '70. Ma è stato soprattutto Johan Cruijff. Il calciatore che ha trasformato in arte persino la sconfitta. Che più di venti anni prima ha preconizzato il calcio moderno. Quello a tutto campo. Quello che diverte. Quello che oltre alla forza fisica mette in campo l'intelligenza calcistica... E quel senstirsi sempre superiori. L'uomo che ha inventato il "falso nove", rifiutando qualsiasi etichetta. Colui per il quale sono stati creati soprannomi che sarebbero stati proposti, invano, per altri giocatori negli anni a venire. Il profeta del gol. Il Pelè bianco. 

Ma alla fine Johan Cruijff è "solo" - si fa per dire - Johan Cruijff. Il suo nome racconta la sua storia. Unico e simbolico. Come unica e simbolica rimarrà la sua utopia, il suo genio calcistico, quella terribile serata del 7 luglio. Come Pelè, Maradona, Roberto Baggio. Tutti coloro che non giocano solo a calcio. Ma che lo interpretano. Lo vivono. Ne diventano tesi, antitesi e superamento. Ma senza che il loro gioco possa mai divenire una formula matematica.
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