Le spine della Destra/La lotta politica a colpi di scandali

Le spine della Destra/La lotta politica a colpi di scandali

di Alessandro Campi
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Sabato 2 Ottobre 2021, 00:07 - Ultimo aggiornamento: 21:47

Quanto sta accadendo in questi giorni, in queste ore, dalle parti della destra italiana, pericolosamente a ridosso delle elezioni amministrative, da un lato è un deja vu politico-mediatico-giudiziario, dall’altro è la conseguenza degli errori politici, d’immagine e di valutazione che questa stessa destra, forse un po’ troppo inebriata dai sondaggi che la danno per vincente sicura alle prossime consultazioni politiche, ha commesso negli ultimi mesi su molti versanti.
Sul primo punto c’è poco da dire.

Lo scandalismo, specie quello a sfondo sessuale, ma vanno bene anche l’accusa di lucrare sul business degli immigrati, di prendere soldi da potenze straniere, di avere avuto la casa in affitto ad un prezzo di favore, di aver strappato i bambini alle loro famiglie, di avere un figlio stupratore, di essersi fatto pagare le vacanze dall’imprenditore amico, oltre quel grande classico rappresentato dalla caccia alle “trame nere”, è la nuova frontiera della lotta tra partiti. Nel segno di un’intransigenza etica e di una sete di verità tanto ipocrita quanto spesso palesemente strumentale (oltre che sempre a senso unico nella denuncia del male).
Magari, tra queste molte accuse, ci scappa anche il reato, persino grave. Ma spesso è solo fuffa ad uso (cattivo) di un’opinione pubblica tanto divisa in blocchi partigiani quanto affamata di un simile cibo.

La si usa per quel che serve e la si dimentica, in attesa dello scandalo successivo. Proprio in Italia lo abbiamo ampiamente sperimentato negli ultimi trent’anni. Nei contenuti e nella tempistica, quest’ultima chirurgica più che sospetta: lo scandalo da dare in pasto al popolo-lupo è utile se scoppia nei momenti politicamente caldi, altrimenti è solo uno spreco di energie.


Il problema è che nel vuoto delle idee e dei progetti in cui navigano tutte le forze politiche, nell’irriconoscibilità delle loro originarie matrici ideologiche, le battaglie politiche oggi si vincono (soprattutto) così: delegittimando l’avversario sul piano dell’immagine pubblica, provando a presentarlo come abietto o riprovevole, imputandogli le peggiori nequizie. Allo scopo vanno benissimo ben orchestrate e amplificate campagne politiche e di stampa che non ricercano alcuna giustizia, ma puntano solo a demolire il malcapitato (e i suoi affini politici) sul piano della rispettabilità e della credibilità. 


D’altronde uccidere simbolicamente un avversario è più facile (e oggi persino più vantaggioso) che doverlo confutare o avversare sul piano propriamente politico. Lo sa bene la destra: ricordate, tanto per allenare la memoria, i casi che hanno riguardato Silvio Sircana, Dino Boffo, Giampiero Marrazzo o Gianfranco Fini e le loro implicazioni in termini politici e di puro potere? (Se li avete dimenticati potete sempre farvi un giro in Rete). 
Ma lo sa bene, anzi benissimo, anche la sinistra. La sua battaglia contro Berlusconi per vent’anni essa l’ha combattuta, alla fine vincendola per sfinimento, esattamente a colpi di scandali in cui in un crescendo ossessivo s’è finito per mettere dentro di tutto: dalle stragi realizzate in combutta con la mafia allo sfruttamento della prostituzione, dalla pedofilia ai bilanci truccati delle aziende, dalla corruzione dei giudici alla circonvenzione d’incapace. Non che il Cavaliere sia mai stato uno stinco di santo, ma certo non è stato un simile mostro. Col senno di poi non sarebbe stato meglio, per la stessa sinistra, provare a batterlo nelle urne?


Non parliamo poi del M5S: dall’orologio di Maurizio Lupi ai bambini di Bibbiano, dal fidanzato della ministra Guidi agli scontrini di Ignazio Marino esso, ben spalleggiato dalla stampa amica e da un clima sociale impazzito, s’è sempre pasciuto della tecnica della pubblica messa in croce a prescindere dalla colpa reale.


Dopo di che attenti a non dedurre da questo ragionamento schemi complottistici.

La degenerazione oggettiva dello scontro politico non implica l’esistenza di una qualche regia occulta: indica solo un cambiamento di registro storico con il quale – stante peraltro il predominio crescente dei social media, che sembrano fatti apposta per far dilagare il fango – dovremo sempre più fare i conti, essendo peraltro un problema non solo italiano. Ricordate come in Francia furono fatti fuori dalla corsa alla presidenza della Repubblica prima Strauss-Kahn e poi Fillon? Oggi bastano una foto rubata, un filmato realizzato per caso con un telefonino o una denuncia anonima, purché cavalcati politicamente e dai media, per stroncare carriere personali o per alterare il corso del consenso popolare. La magistratura assurta in molte democrazie a guardiana della moralità collettiva spesso si limita a completare il lavoro.


Soprattutto, prima di lamentarsi e di atteggiarsi a vittime, come in questo momento tende a fare la destra presa a mazzate da tutte le parti, conviene sempre chiedersi dove stanno le proprie eventuali colpe. Guardiamo il caso di Salvini. Oggi egli non sta pagando le condotte private di Morisi – chi se ne frega delle sue preferenze erotiche – bensì il fatto di aver messo interamente nelle mani di Morisi e della sua strategia-filosofia comunicativa il destino di un’intera comunità politica. Di aver perseguito la raccolta del consenso, in modo quasi ossessivo, con strumenti fisiologicamente effimeri, preferendo i like a un minimo di elaborazione politica. Di essersi atteggiato troppe volte in modo ambiguo: nei rapporti internazionali, nelle scelte di governo, nei messaggi inviati all’elettorato, nelle frequentazioni politiche e finanche personali. 


Russofilo putinista e americanofilo trumpista, uomo di governo e agitatore di folle, populista euroscettico ed europeista per necessità, ora nordista ora sovranista tricolore – così, alla fine, non si va da nessuna parte. Di certo non al governo del Paese, a meno che non ti facciano fare da supporto parlamentare al tecnico di turno.
Guardiamo invece alla Meloni. Un po’ troppo presa dalla competizione interna con Salvini si è dimenticata di ricordare ad alcuni suoi autorevoli esponenti di partito che col fascismo, come dire, non si può più scherzare. Se è vero che la destra italiana ha fatto i conti con l’eredità del Ventennio già a Fiuggi nel 1995, il fatto che ci sia ancora qualcuno in quel partito che si diletta, sia pure a cena, coi saluti romani, coi “boia chi molla”, ecc. è il segno che qualcosa non funziona sia sul piano della catena di comando, sia sul piano politico-culturale e dell’identità politica. 
Non si può essere (meritatamente, ambiziosamente) il capo dei conservatori europei e poi avere tra le proprie fila bambocci che si danno di gomito quando si nomina Hitler. Ma non si può nemmeno lisciare il pelo ai complottisti, a quelli sempre arrabbiati o a quelli allergici al rispetto delle regole. Anche così non si va da nessuna parte. Ci si condanna a stare sempre all’opposizione.


Ieri Meloni e Salvini si sono abbracciati in pubblico. Bene, un bel messaggio di unità dopo i tanti dissapori degli ultimi tempi. Ma ora serve il passo successivo, proprio alla luce di quel che sta accadendo: chiariscano bene, a se stessi e agli altri, chi sono e cosa vogliono veramente. Le immagini alle quali i loro avversari sempre più cercheranno di inchiodarli sono chiare: di essere un aggressivo demagogo il primo, una fascista mascherata la seconda. Avendo con sé, al momento, il 40% degli elettori, hanno tutta la convenienza (in fondo anche il dovere) di mostrare – con parole chiare, con scelte coerenti, con comportamenti inequivocabili, cambiando quel che c’è da cambiare (anche fra i loro fedelissimi) – che le cose stanno diversamente e che chi li attacca sta solo inseguendo i propri fantasmi e la propria paura di perdere. Altrimenti, avranno ragione questi ultimi.
 

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