Il grosso è concentrato tra Emilia, Lombardia e Piemonte le regioni motoristiche per eccellenza. Circa 75mila, secondo i calcoli congiunti di sindacati e imprese dell’automotive, i lavoratori a rischio (su un totale di 160mila) con il passaggio al propulsore elettrico dopo il 2035. Ma il peso specifico dei circa 10mila del Mezzogiorno (la metà dei quali concentrata praticamente in Campania) è tutt’altro che secondario: non solo per l’impatto sociale della componentistica auto in aree sicuramente meno industrializzate del Nord ma anche per la qualità degli insediamenti produttivi, da Pomigliano a Melfi, da Caivano a Nola, da Termoli ad Atessa, da Bari a Pratola Serra. Viene dal Sud, non a caso, Paolo Scudieri, il riconfermato presidente dell’Anfia, la filiera di settore, che ha trasformato l’esperienza campana del gruppo Adler in un player internazionale di assoluto rilievo. Il Mezzogiorno, insomma, conta e trema in questa che si profila come una delle più complicate e incerte vertenze industriali dell’immediato futuro: «In Campania, visto che per assemblare un’auto elettrica non ci sarà più bisogno di oltre il 30% della manodopera attuale, avremo circa 4000 lavoratori in meno – dice Raffaele Apetino, segretario generale della Fim Cisl regionale -. A questo dato si aggiunge che il settore Automotive campano, per lo più mono committente del gruppo Stellantis (ex FCA), già prima del Covid stava attraversando una crisi epocale che la pandemia e la mancanza di semiconduttori ha ulteriormente amplificato».
Terra di carrozzerie e non di motori, il Sud. Ma con importanti eccezioni. Pratola Serra, in Irpinia, ad esempio: di recente Stellantis ha assegnato allo stabilimento (1.800 addetti) la produzione dei motori Euro 7 che dovranno essere in dotazione all’intero parco dei veicoli commerciali del Gruppo italo-francese. L’investimento è stato importante e tale da ipotizzare una lunga durata nel tempo ma, come sottolinea Ferdinando Ulian, segretario generale della Fin, «anche qui si porrà il problema del passaggio all’elettrico dal 2035 e dunque esigenze di riconversione produttiva e occupazionale al momento piene di incognite». Le stesse che potrebbero interessare lo stabilimento Magneti Marelli di Caivano dove si producono marmitte destinate ai siti di Cassino e Melfi (uno dei componenti inutili per le auto elettriche) mentre alla Bosch di Bari, dove fu di fatto inventato nel 1993 il “common rail”, il sistema ad iniezione diretta per i motori diesel, gli scricchiolii sono già da tempo evidenti e la crisi del diesel li ha ulteriormente accentuati.
«La decisione del Parlamento europeo non tiene nel dovuto conto le conseguenze economico-sociali di un passaggio così drastico e repentino alla mobilità elettrica e perciò diventa una condanna a morte per gran parte dell’industria automobilistica europea, che colpirà in modo particolare l’Italia e la Germania con conseguenze che già si stanno materializzando nei principali poli automotive come quello di Bari», dice Sergio Fontana, presidente di Confindustria Puglia.
Ma il presidente dell’Anfia va anche oltre: «Io sono anche preoccupato del fatto che non si è compreso quanto l’Europa non sia preparata per gestire le fasi a monte delle gigafactory, ossia la capacità estrattiva e mineraria e quella di trasformazione industriale, cioè la chimica usata, dopo l’estrazione, per preparare i minerali e le materie prime per gli accumulatori». Dice ancora Apetino: «In Campania l’età media del parco circolante è di oltre 12 anni e oltre il 40% ne ha più di 15, vuol dire che chi decide oggi di acquistare un veicolo benzina o diesel, che ha sicuramente prezzi più vantaggiosi, arriverà sicuramente fino al 2035. Morale: il prezzo di questa repentina transizione verso l’elettrico senza una politica industriale regionale che accompagni le imprese rischia ancora una volta di essere pagata dai lavoratori. È urgente e non più rinviabile la costituzione di un tavolo di emergenza del settore Automotive presso la Regione Campania».