Federico Zeri, così l’arte marchigiana scoprì la sua grande bellezza

Federico Zeri, in un'immagine tratta da Wikipedia
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ANCONA - Autorevole, imponente, ironico, Federico Zeri ha passato la vita alla ricerca dei valori artistici “diffusi” sul territorio. Ha percorso in lungo e in largo ogni vallata del Centro Italia, alla ricerca di eccellenze nascoste, in particolare della pittura marchigiana del ‘400, protetta nei secoli da inaccessibilità e marginalità.

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Con occhio critico infallibile ha svelato un patrimonio artistico misconosciuto. «La sua ultima iniziativa fu rivolta alle Marche», ricorda il direttore dei Musei Piceni, Stefano Papetti.


La personalità instancabile
La mostra del Paesaggio marchigiano e umbro venne allestita, nel ‘98 a Torino, in occasione del Salone dei Beni Culturali. «Coinvolto dal direttore del Centro Beni Culturali delle Marche, Mario Canti, Zeri diede a me l’incarico di stilare un elenco di dipinti, che documentassero i borghi e le nostre campagne. Venuto a mancare in quell’anno, non ha mai scritto il saggio introduttivo del catalogo». Una personalità instancabile, capace di percorrere chilometri e chilometri per rintracciare una trama, per stanare un autore. Continua Papetti: «Era determinato a riconoscere e a dare visibilità a personalità minori. Apprezzava Giovan Battista Salvi, il Sassoferrato, del quale una stupenda Madonna col Bambino era in evidenza nella sua villa di Mentana. L’abbiamo chiesta in prestito al suo erede, il nipote, per la mostra dei disegni inglesi che ho curato a Sassoferrato qualche anno fa. E compare alle sue spalle in una bella intervista filmata». Aveva rivalutato anche Simone De Magistris, «ancora prima della mostra curata a Caldarola da Sgarbi». Con quest’ultimo, che aveva preso sotto le sue ali, ruppe in maniera plateale. «Ma poi il ricordo più commosso, quando Zeri morì, fu di Vittorio».


Il carattere non facile
Un carattere non facile, quello di Zeri. «Pronto alla battuta, anche sarcastica, si divertiva a fare scherzi telefonici a intellettuali e politici». Era un esperto di livello internazionale: «amico e consulente di Paul Getty, lo mise in guardia davanti a un kouros falso, che stava acquistando a peso d’oro». «Nella cerchia del sanseverinate Giorgio Zampa, si lasciò coinvolgere da lui nella Fondazione Salimbeni – racconta Luca Cristini, docente di Catalogazione del patrimonio all’Istituto di Restauro delle Marche. - E con lui, Antonio Paolucci e Mina Gregori. Presidente della giuria, non mancò a una sola edizione. E ha accompagnato San Severino in tutte le iniziative espositive sul Quattrocento marchigiano. A lui si deve l’attribuzione della Pietà, il capolavoro di Lorenzo d’Alessandro. Con Paolucci e Zampetti, è lo scopritore del Rinascimento Adriatico». Fu grazie a lui che, dopo il terremoto del ‘97, si cominciò a pensare a un “museo diffuso”. «Indicò criteri – continua Cristini – che sono stati dimenticati, poco e male applicati dopo il sisma del 2016».

«Era il Rinascimento – attesta Anna Maria Ambrosini Massari, docente di Storia della critica d’arte a Urbino - il suo campo di indagine prediletto. Suo, il merito di aver individuato le parti disperse di diversi polittici di Carlo Crivelli. Fondamentali, i suoi studi sulla scuola di Camerino, e sui dipinti prospettici di quest’area, tributari a Piero della Francesca. E poi, il riconoscimento della personalità del Maestro delle Tavole Barberini». Quello di Zeri fu un occhio nuovo, acuto, sulle realtà provinciali. Continua la Ambrosini: «E ha destinato all’ateneo bolognese un’eredità materiale inestimabile, l’immenso archivio fotografico, ricco di 450mila immagini. Permise a lui, e consente tutt’oggi ai giovani studiosi, una conoscenza capillare della pittura italiana». La storica dell’arte lo definisce «un genio, capace di ascoltare chiunque gli si avvicinasse per chiedergli un parere». Una personalità spigolosa? «Curioso di tutto, non sopportava la retorica. Ha sempre “tirato giù dagli altari” i falsi miti». 

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Corriere Adriatico