“Le poetiche del pensiero”. Mangiaterra ospite del Circolo Esteri alla Farnesina: «L'arte è libera immaginazione»

Bruno Mangiaterra, con la barba, all'inaugurazione della mostra
ANCONA - Tra i “Mondi” dell’arte, che il Circolo Esteri ospita alla Farnesina, a Roma, c’è anche quello, ruvido e splendente, di Bruno Mangiaterra....

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ANCONA - Tra i “Mondi” dell’arte, che il Circolo Esteri ospita alla Farnesina, a Roma, c’è anche quello, ruvido e splendente, di Bruno Mangiaterra. L’anno scorso, per il ventennale della Collezione di Arte Contemporanea del circolo, l’artista marchigiano era stato invitato ad allestire una sua personale nella sede del Ministero degli Affari Esteri.

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Poi la mostra, dal titolo “Le poetiche del pensiero”, la terza del ciclo curato da Carlo Franza, ha subìto un rinvio a causa della pandemia. Si è inaugurata all’inizio di maggio, molto apprezzata dal pubblico e dai diplomatici invitati. Alle pareti, grandi tele su cui sono rappresentati, a olio, blocchi di pietra grezza. Altri tre sono posati al centro della sala: rivestiti di foglia d’oro, sono luminosi, rimandano in bagliori la luce che prorompe dalle grandi vetrate.


Arte e poesia
Sotto una tela campeggia la scritta, al neon, “c’est la poésie des non lieux”. «L’arte è una forma di poesia dei non-luoghi – commenta Bruno Mangiaterra, mentre ci guida alla visita della mostra – perché la sua geografia non esiste all’esterno, ma dentro il pensiero di chi crea». E a chi prova a chiedergli perché sia approdato alla pietra, dopo aver attraversato, con la sua pittura, ma anche con installazioni concettuali e di arte povera, altre materie, altre forme di realtà, risponde: «Mi sono ricordato di quando, da bambino, si giocava in campagna con i sassi, perché non c’erano altri giocattoli. Diventavano personaggi, case, auto, armi e soldatini. L’arte si nutre della stessa immaginazione, libera, sconfinata e ondivaga, dell’infanzia. Inoltre, dopo avere esperito altri linguaggi, sono tornato alla pittura». 


Sulle tele grezze, Mangiaterra ha addossato, con pennellate materiche, a rilievo, superfici che sembrano minerali, ruvide e pastose al tatto. «E i massi dorati, al centro, sono la meraviglia alchemica, simboleggiano la pietra filosofale, che, come l’arte, sa trasformare ogni cosa in oro, anche le pietre: dà vita a oggetti e pensieri». Oro, come sugli sfondi dei mosaici bizantini, e delle tavole del Gotico internazionale. «Ecco, anche in questo consiste il mio ritorno alla pittura, alle mie origini».


Lo conferma la scritta in neon rosso, che corre su un asse che è come un confine verso l’esterno della sala. Vi si legge: “Nel tempio interiore per ritrovare il proprio Oriente”. Bruno Mangiaterra, che è nato e vive a Loreto, a due passi dal santuario, fin da piccolo se ne andava con gli occhi all’insù, ad ammirare i dipinti e gli affreschi che dall’epoca rinascimentale fanno a gara ad arricchire questa oasi di arte e di sacralità. Dal Bramante al Sansovino, al Vanvitelli, e poi Melozzo da Forlì, Luca Signorelli, il Pomarancio. «Un tale magistero di bellezza, un contatto non solo visivo, ma fisico, che mi ha influenzato nella ricerca del mio linguaggio». Per formare la sua “poetica del pensiero”. “Capace – come scrive in catalogo Carlo Franza - di costituire nuovi alfabeti dell’arte». La mostra romana resterà aperta fino al 3 giugno. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico