«Ma per le vie del borgo, dal ribollir ‘de tini, va l’aspro odor dei vini, l’anime a rallegrar». Lo scriveva Giosuè Carducci nel 1883...
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Per conoscere a fondo l’origine di una bevanda nota solo in questa regione, sono indispensabili i racconti dei nonni che hanno vissuto da vicino l’invenzione del vino cotto. A narrare le motivazioni che hanno spinto i contadini maceratesi di un tempo a sperimentare questa bevanda è Luigi Farroni, ex presidente della Pro Loco di Ripe San Ginesio e profondo conoscitore delle tradizioni contadine: «Tanti anni fa - spiega - le attività in queste zone dell’entroterra erano completamente basate sull’agricoltura. Il lavoro nei campi, però, era impegnativo. Non c’erano i trattori moderni di oggi e la lavorazione della terra veniva fatta esclusivamente a mano o con gli attrezzi trainati dalle bestie. Per questo motivo - prosegue Farroni - i contadini avevano bisogno di bere, ogni tanto, un bel bicchiere di vino così da rinvigorirsi e poter proseguire meglio il lavoro pesante. Il vino che veniva fatto a casa, però, era puro e la mancanza dei solfiti faceva sì che spesso la bevanda diventasse aceto e non mantenesse per tutto l’anno». È da questa esigenza che i contadini cercano una soluzione affinché il vino, a loro utile durante le pause dal lavoro, potesse mantenersi buono. «Si decise così di provare a farlo bollire e vedere se, in quel modo, diventasse comunque aceto. L’esperimento riuscì benissimo e ne nacque una bevanda di una gradazione alcolica nettamente superiore a quella del vino, ma che riusciva a mantenersi per anni. Non solo, più invecchiava e più diventava dolce».
A Ripe San Ginesio, così come a Loro Piceno, sono diversi i produttori che continuano a fare vino cotto, non solo per uso domestico, ma anche per la vendita. Uno di questi è Giulio Bordi che, appresa questa antica arte da suo padre, ancora oggi continua a realizzare il vino cotto. Sono suoi i segreti per un vino cotto perfetto: «Anni fa - racconta - si pensava che il segreta per la buona riuscita di questa bevanda fosse nel far ridurre il mosto alla metà di quello che inizialmente era stato messo a bollire nella “callara”».
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Corriere Adriatico