Saman, il giudice del tribunale dei minori: «Anche nelle Marche matrimoni combinati, chiedete aiuto»

Le ricerche del corpo di Saman a Reggio. Il giudice Laura Seveso
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ANCONA - «Il caso di Saman non è un’eccezione. Esistono anche nella nostra regione i matrimoni combinati, situazioni di questo genere non vanno sottovalutate». Le parole della dottoressa Laura Seveso, giudice del Tribunale dei minori e referente della Rete Antiviolenza, mettono un punto fermo su una realtà tenuta sommersa fino all’esplosione della vicenda di Saman Abbas, la 18enne pakistana che, stando alla procura di Reggio Emilia, sarebbe stata uccisa dai familiari dopo aver rifiutato un matrimonio da contrarre in patria.

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Storie drammatiche
La storia di Saman non rappresenta un unicum e non sono neanche eccezioni tutte quelle sfaccettature che entrano nella sfera delle costrizioni imposte da quei contesti, riferibili soprattutto alle aree nordafricane o del sud asiatico, che fanno fatica a integrarsi con la cultura occidentale.

Ne è esempio il caso di un padre nordafricano, trattato dal tribunale, che picchiava la figlia perché conduceva uno stile di vita lontano dai dettami islamici: si era fidanzata con un ragazzo che il genitore non approvava, portava vestiti considerati non consoni, si era iscritta a un corso di boxe e aveva iniziato a fumare. Un contesto inimmaginabile per un padre tradizionalista di fede islamica. 


Il coraggio di parlare
In questo caso, per denunciare, un passo fondamentale è stato compiuto dalla madre della ragazza, anche lei maltrattata. Una collaborazione affatto scontata in situazioni di questo genere. «A volte - afferma il giudice Seveso - si dà per scontato che solo i padri rappresentino la figura tradizionalista, ma non è così. Ci sono donne che non sono riuscite ad integrarsi, spesso vivono in casa, non parlano la lingua del paese dove vivono, non lavorano e restano legate solo alla loro comunità».

«L’importante è capire – continua la dottoressa - che Saman, così come altre ragazze, quando rifiutano un’imposizione non vanno contro i genitori, ma contro la loro comunità. Quando vengono fatte scelte diverse rispetto a quelle che vengono imposte, scatta la domanda: “Come lo spiegheremo a tutti gli altri”? Poi, sopraggiunge anche l’ostracismo della comunità che, comunque, viene vista dall’interno come l’ancora di salvezza, quel mondo che mi accoglie in un paese straniero».

Al Tribunale dei Minori, i casi di ragazze che subiscono pressioni o soprusi da parte dei genitori non sono rari: «i casi di maltrattamenti su minori sono frequenti rispetto alla non accettazione della cultura diversa». Sono soprattutto ragazze vittime di schemi ultra tradizionalisti. Come una 12enne originaria del sud asiatico costretta a seguire contro la sua volontà i rituali del Ramadan. Un’imposizione che, tra l’altro, l’avrebbe portata a compiere gesti autolesionistici. 


Il filtro salvavita
È stata la scuola a salvarla, uno dei filtri maggiori a cui riescono ad appoggiarsi i ragazzi in difficoltà, così come gli amici e, a volte, anche i vicini di casa. L’iter canonico: parte la segnalazione, interviene il tribunale e vengono adottati i percorsi necessari per cercare di aggiustare le situazioni anomale. Alla base delle questioni irrisolte, c’è quella parola che al suo interno ha mille sfaccettature: integrazione.

«I percorsi di integrazione passano dalla cultura –dice il magistrato -: imparare la lingua è fondamentale. Spesso il tribunale, nei percorsi da seguire, chiede ai soggetti coinvolti di imparare la lingua italiana, perché vuol dire stare dentro un mondo, uscire di casa e confrontarsi con gli altri. La possibilità di un’occupazione lavorativa può essere un’altra chance. Alcune donne hanno riferito di essere vittime di minacce da parte del marito del tipo: “Se denunci, ti tolgo i figli”». 


Il disagio maggiore


Non avere «una autonomia economica rende più difficile sganciarsi da una situazione di violenza. A volte, troviamo difficile agganciare queste donne e ragazze, far capire loro che la strada dell’indipendenza passa da un aiuto necessario. Inseriamo in comunità per protezione, ma c’è poi chi decide di tornare a casa». L’invito del giudice: «So che non è facile, ma bisogna avere fiducia, parlare con qualcuno, chiedere aiuto, rivolgersi alle forze dell’ordine, ai servizi sociali e ai consultori, ai centri-antiviolenza, strutture che hanno personale dedicato, anche con un supporto psicologico».  Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico