Dopo McDonald's e Starbucks la sfida-Milan per l'anconetano Masi: "Ora il nuovo San Siro"

Roberto Masi, 55 anni
Uno tempio dello sport come il Giuseppe Meazza da rifare. Un cantiere progettuale che sogna un entertainment park al posto del glorioso impianto di San Siro. Un disavanzo nel 2018...

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Uno tempio dello sport come il Giuseppe Meazza da rifare. Un cantiere progettuale che sogna un entertainment park al posto del glorioso impianto di San Siro. Un disavanzo nel 2018 di 146 milioni di euro da smontare e rimontare mettendo nel mirino pluriennale un turnaround, un’inversione di tendenza dei numeri aziendali. L’ultima sfida di Roberto Masi da Ancona, quartiere Adriatico purosangue da quattro mesi chief operating officer del Milan Ac, è sicuramente la più difficile della sua carriera. Dopo essere stato Ad di Carrefour Italia, McDonald's Italia e Starbucks Italia, deve ripianare un disavanzo 2018 di 146 milioni di euro. Condizione di entrata dell’intervista: «Non si parla di campo». 


Masi, definisca Chief operating officer.
«Escluse area sportiva e marketing, seguo tutto il resto. Quindi: amministrazione, finanza e controllo di gestione, risorse umane, patrimonio e altro».
E poi ci sarebbe San Siro.
«Già, siamo ancora alla fase progettuale e io sono nel team. Quando partirà la fase operativa me ne occuperò in prima persona».
Come casa di Milan e Inter si parla di un entertainment park. La partita come elemento importante ma non fondamentale. 
«Esatto, il Milan vuole avere una casa che viva sette giorni su sette, dodici mesi all’anno. Che realizzi eventi, attiri famiglie e sia vissuto su molte dimensioni e non solo quella del campo. Quindi oltre il modello dello Juventus stadium. La visione è quella dei grandi club inglesi».
Lei è stato scelto e riporta al all’Ad Gazidis. Una sfida appassionante per lei che viene dal food.
«È quello che ho sottolineato quando abbiamo iniziato a parlare. Poi però le competenze che mi venivano chieste attenevano a sfere di azione che conoscevo bene. E ho detto sì».
Dai cinque supermercati di suo padre a incarichi impossibili da concepire per difficoltà e strutturazione. Come si fa?
«Devo dire grazie a mio padre perché mi ha lasciato sempre libero di seguire il mio istinto».
Per esempio?
«È successo più volte. A 18 anni dopo lo Stracca, potevo entrare in azienda e invece ho voluto studiare all’estero per formarmi bene. “Bene, vai” mi ha detto mio padre e ho fatto quattro anni all’università del Connecticut, ad Hartford. Mi sto per laureare e mio padre convoca me e mio fratello a cena alla Moretta».
Per dirvi che?
«Che ci lasciava l’azienda. O che si poteva vendere. Dovevamo decidere. Io avevo già un impegno per dirigere un McDonald’s negli Stati Uniti».
E lei e suo fratello?
«Abbiamo detto: teniamo e vediamo. Sei mesi dopo, un’offerta. Mio padre ci dice: se volete ci sono incarichi pronti anche per voi».
Ha accettato?
«No, però abbiamo venduto. Volevo un percorso mio personale. Ho studiato il mercato, erano i tempi in cui ad Ancona partiva il Joyland, la grande distribuzione. Ho mandato curriculum in tutta Europa. Mi sceglie Carrefour che in quel periodo organizzava percorsi dirigenziali di formazione molto articolati. Due anni in Spagna, sei mesi in Francia. E poi Italia con incarichi sempre crescenti fino a diventare amministratore delegato».
Come nasce la sua vita in McDonald’s? Dal junk food al cibo certificato made in Italy.
«Mi chiamano e mi dicono: abbiamo aperto tanto in Italia ma siamo in rimessa. O chiudiamo o rilanciamo. Ci sediamo e facciamo un piano: primo, rivediamo il concept dei locali. Spiego che in Italia quando si mangia servono spazio e accoglienza. Non sono convinti ma mi seguono. Secondo, la filiera del food: mi informo su fornitori e provenienza e scopro, tra le altre cose, che la carne arrivava solo dall’estero».
E a quel punto?
«Inversione di tendenza. Accordi con gli allevatori della Val Padana e con i produttori di tutta Italia: dalle mele della Val di Non all’olio di Puglia e Calabria. Poi apriamo anche sulla dorsale Adriatica, fino ad allora ignorata. Poi la terza fase del piano: la caffetteria. Due anni così così e poi l’esplosione, i locali vivono dalle 7 a mezzanotte, diventano più redditizi, la caffetteria da zero sale al 13% del fatturato globale che da 400 milioni passa a 1,2 miliardi di euro».
Infine Starbucks.
«Un conto era crescere con Carrefour, un conto rivoluzionare Mc Donald’s. Lì c’era da partire da zero: abbiamo aperto una quindicina di caffetterie e ne avevamo in programma altre 15. E poi abbiamo avviato il flagship store di MIlano, terzo al mondo dopo Seattle e Shangai. Ora sono arrivate New York e Tokyo ma resta l’unico in Europa: torrefazione a vista e all’istante, è un’esperienza».
Il suo legame con Ancona è vivissimo: cosa vede quando torna?
«Una città bella e accogliente, il mio paradiso è qui. Non potrei fare a meno di Ancona o Portonovo. Pensi che mio figlio che non è nato qui dice che quando viene qui si sente in vacanza».
Ad Ancona, nelle Marche c’è scontento.
«Lo so, è una componente di questo tempo un po’ ovunque quando si rimane uguali a se stessi e si fatica a innovare. Ma ci sono anche le opportunità. Bisogna studiare e puntare su un aspetto che possa diventare vincente».
Il porto?

«Con beneficio di inventario e rispettando i ruoli di tutti: la città degli studenti, no?».
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Corriere Adriatico