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La poesia, nelle Marche, ha un tratto distintivo che a partire dal secondo Novecento si è ben delineato con autori apicali come il grande dialettale Franco Scataglini, il quale coniò il concetto di “residenza” dimostrando, nei primi anni Ottanta, che la periferia geografica, dall’avamposto di Ancona, potesse diventare un centro letterario. Un luogo geograficamente alienato, come tutti i luoghi della terra. Su questa scia Alessandro Moscè (che è di Ancona, ma vive a Fabriano), con il suo convincente quarto libro di poesia, “Per sempre vivi” (Pellegrini, Cosenza, 2024) preserva e continua la tradizione regionalistica e universale con una poesia lirica che fa soprattutto del dialogo a distanza con i morti il suo punto di forza.
La testimonianza
L’esperienza diretta, la testimonianza in prima persona, il tema cruciale di un realismo visionario ed evocativo sono il fulcro di versi energici, di chi guarda, ascolta e sa trasfigurare le apparizioni, i sogni e i silenzi (vengono in mente i poeti della terza generazione: in particolare Sereni, Caproni e Penna).
Il controcanto
Si tratta di una prosa poetica, di un controcanto che conduce al rito della fine. Sebbene Moscè abbia una tensione senza dubbio metafisica, questi versi richiamano l’altra riva, spoglia, di Francesco Scarabicchi, così come la veglia nella dimensione infinitesimale di Remo Pagnanelli. Moscè è anche un poeta che trasforma il ricordo in mito: ha sempre detto che il basso epico di Borges gli ha consentito di intravedere nei calciatori degli anni Settanta i gladiatori dell’antica Roma. Tra tutti l’amatissimo Giorgio Chinaglia, il centravanti della Lazio che gli fu vicino a quando, quattordicenne, contrasse una grave malattia. La memoria e la sopravvivenza, l’amore per i nonni, la contiguità con gli scomparsi vengono inglobati con nitore in soliloqui e conversazioni che aprono lo spazio e il tempo della fraternità nelle voci di oggi, del passato, nella pienezza di senso del “per sempre vivi”, stando al titolo del libro estrapolato da un verso di Alfonso Gatto.
Le figure femminili
Le stesse figure femminili, nelle rarefazioni, fanno parte di un repertorio che conduce al prezioso mistero dell’esserci in un borgo, in una via urbana, tra le colline dell’entroterra o lungo la distesa adriatica: «Sono fermo sui tuoi capelli corvini / su questo rettilineo che corre nelle tue gambe / assorbita l’aria del vento randagio / più di noi che ci chiamiamo / più di noi impazienti di occhi scavati».
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Corriere Adriatico