Lo chef Gabriele Eusebi: «I giorni della trebbiatura erano rituali di bellezza»

Lo chef Gabriele Eusebi: «I giorni della trebbiatura erano rituali di bellezza»
Uno sopra l’altro, i diciotto strati dei vincisgrassi che prepara con ragù di interiora e besciamella sono uno scrigno di bellezza e protezione, come l’armatura...

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Uno sopra l’altro, i diciotto strati dei vincisgrassi che prepara con ragù di interiora e besciamella sono uno scrigno di bellezza e protezione, come l’armatura di un cavaliere medievale catapultato nel ventunesimo secolo. Per conoscere davvero Gabriele Eusebi - chef col cuore sempre in movimento e le radici salde nella sua Belmonte Piceno - quegli strati occorre sfogliarli come le pagine di un libro, avventurarcisi in mezzo con la curiosità e la vertigine di rintracciarci dentro un’anima innamorata di una cucina che è esperienza di dono, accoglienza e amore. Il viaggio di esplorazione parte con un appuntamento telefonico a mezzogiorno, appena prima del pranzo. Il rumore di sottofondo è quello di un coltello che, su un tagliere, affetta, prepara, si muove cadenzato, dà ritmo e si alterna allo scricchiolio delle verdure che cadono sotto i suoi colpi. 

 


La cucina


«Sono nella cucina del ristorante di Torino in cui lavoro da un anno e sto preparando il ragù per i vincisgrassi con sugo alla finanziera, che è una specialità piemontese che ho deciso di sposare a una delle prelibatezze della cucina marchigiana, i vincisgrassi al forno a legna come li preparava mamma Agnese», precisa. Succede così che si bussa alla porta del primo di tutti quegli strati - lo zoccolo duro, la base che tiene in piedi tutta la costruzione. Dietro la porta, appare un bambino dall’aria timida, riservato e assorto nei suoi libri, tra fumetti scarabocchiati qua e là, giornate all’aria aperta e un’infanzia «calma e tranquilla - ammette Gabriele - di quelle trascorse in campagna, a correre con gli amici tra i vecchi ruderi per giocare a nascondino o in cerca di avventure da vivere con la fantasia di chi è lontano da ogni forma di socialità e vita cittadina e le giornate le riempie con la creatività. L’infanzia delle giornate al sole, delle sere d’estate passate a mangiare il cocomero nell’orto di casa sotto un cielo di stelle fiammanti, del giallo paglierino del grano maturo e di quei mesi di giugno in cui andava in scena lo spettacolo della trebbiatura. Erano i giorni che aspettavo con trepidazione ogni anno per tutto l’anno, attimi che tornavano precisi in quella stagione e che erano rituali di bellezza e contatto con la natura, respiri, profumi, sensazioni, magie nell’aria che mi facevano stare bene e che oggi sento scorrere nelle mie vene, finendo addirittura nei miei piatti e dando vita alla mia cucina», quella che fonde passato e futuro, tradizione e contesto attuale, il bambino di ieri e l’uomo di oggi. 


Il passato


Nelle sue preparazioni - precisa Gabriele - di tutto quello che è stato ieri ci sono tracce precise, segnali inconfondibili, spie che non mentono. Innanzitutto, ci sono mamma Agnese e babbo Nicola, «quelli che mi hanno insegnato la maestria delle lavorazioni, appannaggio di mamma Agnese, e il rigore per ciò che si porta in tavola, con quel rispetto assoluto di ingredienti e stagionalità che mi ha trasmesso mio padre», sottolinea lo chef. Inconsapevolmente, sono loro l’imprinting di un amore per la cucina scoppiato per caso, a ventisette anni e chilometri di distanza da quel focolare domestico che sapeva di buono, di vero, di autentico, «come il sangue di maiale che preparava mia madre ed è tuttora il piatto della mia infanzia, quello dei ricordi vivi della salata e di un tempo che sapeva di attesa, di magia, di rituale sacro che si ripete - ricorda Gabriele - Con tutta questa bontà nel cuore, mi sono avvicinato al mondo della ristorazione a quindici anni: ho cominciato con i primi lavoretti nei ristoranti della mia zona e nelle cucine più varie che riuscivo a trovare attorno casa - racconta - la svolta, però, c’è stata in un piccolo borgo dei Paesi Baschi dove ogni sera, finito il servizio nel ristorante in cui lavoravo, cucinavo per una brigata di ottanta persone dalle provenienze più disparate. Mi sono accorto che la mia cucina di casa, quella che raccontava tanto di chi ero e da dove venivo, faceva star bene tutti, proponendo un abbraccio che fondeva i ricordi e le ricette della mia terra con i sapori che trovavo a chilometri di distanza. Un mix inconfondibile, che era quello che sono e che ancora oggi colora la mia identità e la mia cucina, a metà strada tra casa e il mondo».
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Corriere Adriatico