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Quando la forma è sostanza. La strana forma del libro di Maria Lenti, l'immagine di un albero che è chioma e radici allo stesso tempo e la sostanza densa e porosa di ciò che la scrittrice racconta. Ci avverte con un titolo tra favola e verdetto "Apologhi in fotofinish" e ci conduce per mano a scoprire la sua infanzia, quel frammento di Maria immutabile, che si è dipanato negli anni a venire.
Le trame
Racconti, ricordi, analisi, riflessioni, persone che hanno animato i suoi 50 anni di pratica letteraria, tanta poesia ma non solo, in cui ogni lettore trova una parte di sé, una parola che lo riguarda, uno spazio abitato, un tempo vissuto al suo fianco, magari senza saperlo.
Le storie
Leggendo si scorrono pagine minute che sembrano sottolineare la timidezza dell'autrice che si fa però voce perentoria quando affida alla memoria comune la storia di alcune donne meritevoli di essere raccontate. Il grande omaggio ai misteri della Muta, la storia carsica di Magia Ciarla, madre di Raffaello ma anche Marinangela e l'amore che è un destino difficile da scansare, Milena e il suo pensiero perduto in un luogo del mondo indefinito e indefinibile ma tristissimo. Per la sua amica Paola Nepi poco più di una paginetta, un racconto serrato come di chi è in fuga dal dolore, parole leggere come mussola per riassumere la malattia e una canto di gratitudine a chiudere il cerchio. E poi c'è Enrichetta Vilella e la sua Chiave di cioccolato, un ricordo condiviso di una persona speciale che da un luogo terribile, come il carcere, ha saputo far fiorire lettura, teatro e umanità insospettabili. Condivido con Maria Lenti l'ammirazione per l'educatrice che rende umano il grigio di una casa circondariale.
Il dono
Di grande spessore le pagine dedicate all'arte, ai suoi pittori divini, al mito, alla poesia, a Giacomo Leopardi, a Dante e al dialetto. Nelle sue pagine c'è la letteratura, c'è il cinema, c'è la storia, c'è l'osmosi continua tra sguardo privato e osservazione pubblica, con una sapienza consolidata che sa talvolta lasciare il passo a una voce accorata, a un pensiero preoccupato per il tempo che stiamo vivendo e per il tempo che verrà. Non si cerchino però consolanti soluzioni nelle sue parole affilate come selce, lavorate con sguardo primitivo ed essenziale. Forse nel dire ancora l'utopia sta il suo dono conclusivo, un invito alla coralità della vita, a un noi che superi le solitudini dei tanti sperduti io.
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