FERMO - «Chi sa parli» è l’imperativo dell’avvocato Filippo Polisena, che invita chi ha visto a non aver paura e testimoniare, perché...
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L’intenzionalità dell’omicida è chiara e l’efferatezza indica la personalità di un individuo che, a saperlo libero, mette paura. Più si scava più s’infittisce il mistero della morte. Sono passati sei mesi, c’è stato il Coronavirus e la macchina della giustizia, già lenta di suo, si è stoppata, ma l’avvocato che segue la famiglia Radu è intenzionato ad andare a fondo di questa storia. Mihaita non può essere un caso irrisolto ma il rischio c’è. Metà anno è passato senza un nome iscritto sul registro degli indagati, senza un particolare utile a ricostruire la vicenda, né telefonino né arma del delitto. Il tempo rema contro. Le indagini preliminari possono andare avanti un anno ed essere prorogate fino a due, siamo nei tempi ma più passano le ore, più la verità s’allontana. Polisena conosceva Mihaita, lo aveva difeso in passato.
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C’era stato un fattarello di droga e un caso di minacce e lesioni, due sentenze di condanna, tutto si era chiuso con i servizi sociali. Il ragazzo aveva cambiato vita, era diventato un volontario alla Croce Verde ed era sempre disponibile. Aveva un lavoro fisso in uno scatolificio di Sant’Elpidio a Mare e il titolare lo stimava. La sua morte non va a pescare dai fantasmi del passato, quindi, è nel presente che si scrive.
«Non c’è un contesto che possa giustificare una vicenda così grave - afferma Polisena e dice che l’indagine - è sotto gli occhi di tutti che stia andando a rilento, sono passati sei mesi e non è venuto fuori un minimo risultato, il decorso del tempo in questi casi è dannoso perché determina la dispersione delle prove». A rallentare l’iter ci si è messa pure la pandemia, la lentezza «gioca a favore di chi deve disperdere le prove – avverte il legale e spiega – è questa la preoccupazione che ho io e che hanno i familiari, l’accorato appello della madre (al nostro giornale nei giorni scorsi, ndr) è quello di una donna che chiede alla giustizia di fare presto. Ritengo che si debba arrivare a qualcosa di concreto, a un risultato, l’individuazione del o dei colpevoli è un atto dovuto dal sistema giustizia, anzitutto nei confronti dei famigliari, che hanno diritto di sapere, poi per la comunità che non può permettersi di avere un assassino ancora a piede libero, Porto Sant’Elpidio non può sopportare fatti così gravi senza che si arrivi al colpevole. Abbiamo tutti il dovere di fare di più, vale anche per chi sa qualcosa e non l’ha ancora detto, bisogna sentire il dovere civico di riferire alle autorità fatti dei quali si è a conoscenza. Tutti dobbiamo preoccuparci di un delitto che è maturato in pieno centro, non in periferia, e anche un minimo particolare può essere utile a ricostruire la dinamica dell’omicidio».
L’invito è a chi ha visto a relazionarsi con gli inquirenti, i carabinieri. Si possono comprendere le paure, e per la lentezza della giustizia e per il timore di ritorsioni, ma il senso civico deve prevalere «un assassino che l’ha fatta franca una volta, può rifarlo» asserisce l’avvocato che è al suo terzo caso di omicidio ma questo, probabilmente, è stato il più efferato «la mano che ha inferto le coltellate era decisa, c’era la volontà di uccidere» la chiosa. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico