L’impossibile radicamento sociale delle moderne sub-culture giovanili

L’impossibile radicamento sociale delle moderne sub-culture giovanili
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L’anno scolastico è iniziato coincidendo con una drammatica recrudescenza di episodi di forte disagio giovanile che fanno da più parti gridare ad una “emergenza bulli”. Si tratta di episodi in cui i giovani smaniano di dimostrare la loro adesione a modelli sociali allo stesso tempo eufunzionali e devianti che determinano una immagine di sé come prototipo dell’individuo adattato, seriale-esperienziale che fa propria in toto la cultura dell’avere e che non può mai accontentarsi di ciò che ha acquisito perché altrimenti subisce le logiche ritorsive delle medesime ricompense simboliche che lo dominano. In tale contesto il processo maturativo perde completamente il suo valore perché si deve imparare a galleggiare in un mondo evenemenziale, di forme e processi improvvisati e subito rivisti, nel totale dominio della sincronia dato che ciò che si fa - come ci si diverte, ciò che piace, ecc. - sembra essere uguale a 20 come a 40 anni. La saggezza è travolta dall’informazione e tutto scivola via richiedendo solo adattamenti modulari, limitati al cortissimo raggio di un esperire che promuove malamente il senso di auto-efficacia. Tutto è funzione e non domanda senso a ciò che c’è prima, ma solo alla sua attualizzazione patente. La dimensione collettiva è messa in latenza e l’orizzonte morale appare risucchiato nelle spasmodiche attese di comportamento, per controllare le quali non valgono più i valori, ma i codici operativi degli schemi di azione sistematizzati dalla cultura di massa. Diventare adulti richiedeva un mondo di valori rispetto al quale ricercare una strategia di auto-consolidamento e di legittimazione psichica del proprio orientamento verso sé gli altri, ma la velocizzazione razionalizzante tardo-moderna non tollera nessuna integrazione esterna, nessun meta-racconto. Una vita morale è possibile solo quando vi è una dimensione collettiva che identifichi nel “noi” un parametro dimensionante le aspettative dell’io, ma questa dimensione collettiva tra i giovani d’oggi è rarissima; esiste quella dell’assembramento di anime, della calca linguistica e del riflesso condizionato consumistico. Il collettivo moltiplica le irrisoluzioni del singolo e non sa farsene carico vivificandone la presenza nelle trame di gruppo. In tale quadro il divertimento diventa compulsivo, divenendo una specie di dovere personale che spinge ad immolare una parte di sé alla logica dissipativa del non senso. Gli stessi affetti risultano un lusso ingiustificabile per i giovani, dato che non si può essere in sintonia con sè stessi se la logica vera è quella della strumentalità e del “vivere alla grande”. La dimensione affettiva richiede sacrifici e ridefinizione del senso del tempo, imponendo la scoperta del proprio spessore maturativo che può diventare pericoloso rivelatore della mancanza di autenticità di vita. L’intervento sociale dovrebbe restituire a questi giovani il piacere della normalità, al riparo dagli eccessi e dalla costante effrazione del limite. Il presunto Eldorado della normalità (con cui, ideologicamente, l’adulto osserva il disarmante disagio delle giovani generazioni), nelle scienze sociali si è affermato come idea perbenistica e conformizzante. Si tratta di una idea che confonde il piano sociologico con quello psicologico. In condizioni di “società consistente” i tempi esterni finivano per coincidere con quelli interni, con una sostanziale sovrapposizione di dimensione sociale e psichica che confermava la vecchia teoria della corrispondenza tra ”sociale” e “morale”. Si pensava che il disagio per esistere dovesse evidenziarsi tramite markers esterni, in stretta relazione con le forme di tale corrispondenza. L’epica della dipendenza da sostanze appartiene a questa struttura di significato. Si tratta di uno schema che equipara disagio e devianza e senza l’una non si da l’altro. Ora tutto è cambiato ed emerge il disagio a-sintomatico perché in società evanescenti, quando interno ed esterno non sono più co-costitutivi, evapora l’idea di normalità. Si credeva che se il privato fosse stato colonizzato dal pubblico, le cose sarebbero andate per il verso giusto e se mancavano evidenze sociali del disagio non dovevamo presagire emergenze psichiche dello stesso. Oggi non è più così ed i tratti biografici fortemente individualizzati acuiscono un’angosciosa sofferenza soggettiva che spesso appare inaccettabile, confinata nelle dimensioni contenitive della terapia. La sofferenza giovanile, dovendo restare invisibile, diviene anche non facilmente dicibile. I giovani non hanno imparato a soffrire, ma a narcotizzare la sofferenza (alcol, droga, violenze ecc.), in una gigantesca operazione di spostamento psichico su obiettivi krikster e nell’ottica di una cronicizzazione delle strategie di proiezione del negativo sugli altri e sul mondo, profittando della durata indefinita e senza traguardi del processo di socializzazione. Si comprende bene come il vecchio processo di socializzazione, quello che formava la personalità secondo aspettative di ruolo, si sia frammentato in tante pseudo-immagini del sé, tarate sulle scarse possibilità lavorative e sofferti rimaneggiamenti egoici. Ricercando il progressivo coinvolgimento nel sistema sociale, l’individuo giovane scopre la sua inessenzialità a fronte della perfezione organizzativa e delle diffuse logiche autoreferenziali, comprendendo come le vecchie strutture “need-disposition” (T. Parsons) non controllano a sufficienza le aspettative di ruolo. Se la struttura di personalità non elabora l’interiorizzazione delle motivazioni di ruolo, non è possibile agire in base a modelli valoriali di riferimento. Non si apprende per identificazione, ma per episodica attorialità sul palcoscenico dell’evenemenziale.

 

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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Corriere Adriatico