Il dialetto come potente antidoto contro la neutralità affettiva dell’ambiente urbano

Il dialetto come potente antidoto contro la neutralità affettiva dell’ambiente urbano
L’articolo 1 della legge regionale n. 28 del 18 settembre 2019,...

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L’articolo 1 della legge regionale n. 28 del 18 settembre 2019, stabilisce che “al fine di riconoscere e sviluppare le identità culturali e le tradizioni storiche delle comunità residenti nel proprio territorio, la Regione Marche salvaguarda e valorizza i dialetti nelle loro espressioni orali e letterarie, quali parte integrante del patrimonio storico, da trasmettere alle future generazioni”. Se la lingua è da sempre un elemento caratterizzante l’identità individuale poiché identifica un parlante come appartenente ad uno specifico gruppo umano, che senso ha la valorizzazione dei dialetti proprio nell’epoca della dis-identità e della necessaria costruzione di un io/ruolo destinato a risolvere in competenze il senso di appartenenza ed il suo apparato di vincoli? La lingua italiana combatte il dialetto sul piano lessicale e non più a livello delle pure strutture linguistiche (specie nella morfosintassi). L’enorme dilatazione lessicale si deve al moltiplicarsi di sfere semantiche (tecniche ed economiche in primis) che costituiscono l’effetto più tangibile della differenziazione sociale sul linguaggio ordinario. I dialetti non hanno risorse lessicali proprie per far fronte all’incremento strutturale della complessità sociale legandosi a forme più rudimentali di differenziazione. Il glottologo Massimo Ceruti sostiene che «il dialetto (…), benché non più indispensabile per i bisogni comunicativi della contemporaneità resiste, risultando vitale come varietà aggiuntiva, parallela alla lingua nazionale. Il dialetto compare anche in ambiti d’uso per i quali fino a qualche tempo fa ne era difficilmente prevedibile l’impiego e l’uso alternato con l’italiano nello stesso evento comunicativo potrà rappresentare una delle principali forme di vita futura del dialetto». Tuttavia, la sopravvivenza del dialetto si deve anche al fatto che riesce a comunicare meglio del linguaggio ordinario alcune dimensioni di esperienza simbolica legate ad uno psichismo profondo, indisponibile a legittimare i rapporti di potere che transitano attraverso l’ordine linguistico. Anche se il suo recupero avviene nella fattispecie di variante linguistica accessoria, incapace di concorrere con la lingua ufficiale, quella dialettale resta una sfera espressiva più adatta ad esprimere repertori assai limitati – anche se molto significativi – di esperienza. Impiegato assai raramente con estranei ed in contesti pubblici (praticamente inutilizzabile in situazioni spiccatamente formali, appartenendo a sfere espressive familiari ed amicali), sa ancora dimostrarsi potente antidoto contro la neutralità affettiva dell’ambiente urbano. Ritiratosi nelle aree protette dell’inconscio dopo l’espulsione sociale dagli apparati ufficiali della significazione, il dialetto vive delle logiche attutenti del motto di spirito o di quelle lenitive di una resilienza etnica che si confronta con gli effetti alienanti della realtà normale cui siamo legati. Autentico Peter Pan dei linguaggi, il dialetto è destinato a restare eternamente giovane, non già avvalendosi delle specifiche categorie dei parlanti che lo usano, ma perché consente all’autentica dimensione corporea di affiorare alla superficie del senso. Il gergo informatico, ad es, anche se interpretato da giovanissimi, è repertorio decrepito perché militarmente occupato da gravami espressivi tutti ricompresi all’interno della sintesi sociale della differenziazione funzionale (c’è la rete perché prima c’è una società a rete). Il dialetto invece è un teppista della pertinenza che sabota l’ufficialità della significazione; ha a che fare con la dimensione corporea del tempo vissuto, non con la rappresentazione distanziante dell’io mentalizzato. Al tempo presente è preso in carico da veri e propri collezionisti di rarità, il dialetto rientra negli interessi di élites di cultori devoti, alternando funzioni ludico-ricreative a logiche di convivialità esclusiva, suggellando il pieno impossessamento (enologico, culinario, di vocazione territoriale ed ora linguistico) di un’identità territoriale. Tolto forzosamente dallo strattone della significazione conflittuale, rientra nel collezionismo simbolico luxury, in una sorta di paternalismo neutralizzante del patrimonio espressivo di gruppi sociali che vi distillavano una fiera indisponibilità a vivere la propria frugalità come regola di esclusione. Il dialetto, sacrificato dalla cultura ufficializzata nel suo canone linguistico sull’altare del progresso e della divisione del lavoro, esprimeva un senso del mondo irricevibile dai sistemi di significato legati alla differenziazione funzionale della società. Ora se ne tenta un recupero che ricalca l’equazione alimentare piatto povero = mangiare sano, come se anche una forma linguistica assumesse d’incanto un profilo glamour nella logica alternante del benessere esperienziale, capace di associare disinvoltamente la valorizzazione del tartufo a quella di antichi repertori linguistici. E’ questa sorta di “recupero-gourmet” - nell’insostenibile inflazione dell’idea di appartenenza culturale - che lascia perplessi, in contesti territoriali dove convivono popolazioni che fanno del dialetto un ovvio uso corrente e concomitanti politiche di conservazione sospese tra la banalizzazione ludica e la tentazione museale. La società dell’abbondanza si esprime in un linguaggio obesizzante che non comunica autenticità né sentimento ed il recupero dei dialetti dovrebbe servire a ripristinare l’equilibrio emozionale tra sistemi psichici e sistemi sociali, travolto dall’accelerazione dei ritmi di vita e dal massiccio incremento dei rapporti informali della folla solitaria. Come accade per la biodiversità o per altre politiche di conservazione della memoria storica.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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Corriere Adriatico