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La vicenda della contestatissima Superlega calcistica ci mostra come lo sport diventi un mutante sociale, un sistema di azione particolarmente sollecitato da oscillazioni finanziarie e mass mediali, con il campo da gioco mutato spesso in teatro di scontri ed interessi diversi da quelli sportivi. Esasperando i contenuti espressi in diverse analisi di storia sociale dello sport calcistico, in un numero del 2006 della rivista “Diritto ed economia dello sport”, il calcio veniva chiaramente definito come «struttura di mercato istituzionalmente definita, con il comportamento dei proprietari rivolto alla massimizzazione di un certo obbiettivo filtrato dalla struttura organizzativa delle diverse società». Approfondendo queste analisi, l’economista Andrew Zimbalist sosteneva che i proprietari delle squadre si trasformavano in massimizzatori di profitto (profit maximizer) e di utilità-vittorie (win-utility maximizer). In qualità di agenti massimizzatori di utilità-vittorie, le proprietà di note squadre di calcio potranno adottare gli stessi comportamenti di altri agenti “profit” per quanto riguarda l’investimento in risorse ed operazioni di compravendita nel mercato del lavoro. Insomma, «le squadre di calcio seguono invariabilmente un comportamento di massimizzazione dei profitti relativi all’utilità-vittoria, variabilmente vincolato a seconda delle strutture proprietarie». Quando si dice “essere chiari”... La profonda avversione incontrata dalla superlega europea corre sulla linea di faglia che separa umano e sociale, con lo sport professionistico che cerca di garantire un precario equilibrio ai due universi. Dal lato del tifo appassionato, la fabbrica dell’eroismo sportivo si fonda sulla necessità di identificazioni rassicuranti, socialmente sviluppate a partire dall’interiorizzazione delle reazioni di dominanza espresse dal linguaggio del corpo atletico, fondamentali per stabilire lo status gerarchico dell’individuo all’interno di un gruppo umano. Atleti in “atteggiamenti di trionfo”, con braccia al cielo ed il viso rivolto al cielo, attestano una posizione dominante sul soccombente, agendo un comportamento inconscio - probabilmente innato - che serve ad esprimere immediatamente la dominanza del proprio ruolo nella gerarchia sociale, utilizzando gestualità destinate ad incutere timore. Sono esperienze che tutti abbiamo fatto nostre. Il tifo, opponendosi alle logiche finanziarie che cercano di trasformare il gioco in industria, sgorga dal fatto che il calcio è un gioco sempre uguale perché sempre diverso. Uguale a sé stesso nelle sue regole, ma sempre diverso nello svolgersi della gara, mantenendo la certezza delle norme nella piena garanzia dell’incertezza del risultato. Al contrario, il progetto di omogeneizzazione finanziaria, determinava una sterilizzazione contestuale, una coltivazione in vitro del successo sportivo, incompatibile con la natura dialettica del calcio, in cui caratteristiche contraddittorie si risolvono nella perentoria sintesi finale del risultato. Queste valutazioni, certamente riconducibili ad una consolidata letteratura, ci consentono di valutare con neutralità lo scalpore suscitato dalla vicenda della Superlega europea di calcio il cui stop, decretato a furor di popolo, palesa una sbrigativa strategia di invisibilizzazione di ciò che esiste da tempo, reclamando un ovvio adeguamento a logiche quantitative destinate a soppiantarne altre. L’insuccesso dell’iniziativa è stato decretato dalla necessità di portare alla luce una logica di sistema che, ampiamente consolidata nel management calcistico, svelava la debolezza sociale della passione calcistica confrontata con la dura realtà del debito gravante sulla fabbrica dell’emozione sportiva.
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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