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I casi di Fabio Ridolfi e di Federico Carboni hanno riproposto con forza la questione del dolore nella condizione umana in piena età tecnologica. Mettendo in guardia dal farsi idee troppo chiare sulla sofferenza e sul patire umani, il filosofo Salvatore Natoli scriveva: “Il dolore è quanto di più proprio, individuale e intrasferibile possa darsi nella vita degli uomini, ma nello stesso tempo non è un’esperienza così immediata e diretta come a prima vista potrebbe sembrare. Nessun uomo potrebbe vivere la sua sofferenza – o sopravvivere ad essa – se non riuscisse in qualche modo ad attribuire un senso a ciò che patisce. Esistono quindo scenari di senso già predisposti entro cui il dolore viene giustificato o compreso”. Sulla mutazione di tali scenari di senso, scrive il filosofo Byung Chul Han in un saggio intitolato “La società senza dolore”. Il contesto sociale in cui si inseriscono in modo drammatico i casi che discutiamo, esprime una orizzontalità – valoriale, politica, di strutture di senso – che Byung definisce “ad effetto palliativo”, dove la condizione normale, invece di predisporci alla lotta per un ideale trasformativo, ci coordina alle imposizioni del sistema. Il nostro modo di vivere non ha più “il coraggio del dolore” e venendo meno una visione capace di “far male” perché incapace di imporsi sulla contingenza, abbondiamo di analgesici di breve durata che velano dolorosi paradossi sistemici. L’odierna fobia per il dolore nasconde il fatto che la nostra è una società della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo, dolore e morte in primis. Azzardando una prima valutazione, possiamo dire che nelle vicende dei due marchigiani gli elementi socio-strutturali al cuore delle drammatiche scelte riportate dai media sono molto forti, mediando di fatto le deliberazioni soggettive scelte ed attuate. Nel nostro tempo si realizza una importante saldatura tra cultura della palliazione e della prestazione, con le logiche della “happyness” che sanciscono la reclinata passività del soffrire come largamente priva di senso. Oggi il dolore viene privatizzato perché negato a qualsiasi possibilità di espressione e non potendo diventare linguaggio condiviso, non potrebbe comunque determinare possibilità trasformative realizzate nel patimento. Non a caso il sociologo Niklas Luhmann faceva notare come il modello di innamoramento e di amore più longevo in Occidente (l’amore-passione appunto), registrasse una drammatica crisi “vocazionale” a motivo della continua ricerca di analgesici esperienziali capaci di mantenere inalterata la nostra immagine di auto-efficacia. Intervistato da questo giornale, il Card. Edoardo Menichelli ha dichiarato che “lungi dal condannare certe scelte (di Fabio e Federico, ndr), mi chiedo se esse non dipendano dal sentirsi inutili e non più efficienti. Non si gioca con la vita al maggior rendimento”. Il tema è da tempo discretizzato in svariate pratiche sociali che ad un corpo che esce dal circuito produttivo (quello dell’anziano ad es.) negano tutele altrimenti assicurate a chi mantiene un ruolo di attiva produzione e riproduzione sociale. “Eutanasia” è parola greca che significa “buona morte”, ma oggi subisce uno slittamento semantico nel senso di una “morte anticipata” rispetto alle autonome risorse dell’organismo. Venendo a mancare una semantica della sofferenza (schiacciata dalle logiche produttivistiche e posta fuori luogo dalla cultura dell’apparenza), al dolore non si guarda più come complesso costrutto sociale. Mentre la società sacrale dei martiri istituiva una relazione fortissima con il dolore a partire dall’esigenza di un pieno controllo dei corpi e con la pena corporale formidabile “strumento di dominio” (E.
Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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