Le mancate liberalizzazioni riducono la competitivà

Le mancate liberalizzazioni riducono la competitivà
Ci risiamo con la questione della liberalizzazione delle licenze dei taxi. Questione affrontata più volte negli ultimi decenni senza mai arrivate ad una soluzione. È...

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Ci risiamo con la questione della liberalizzazione delle licenze dei taxi. Questione affrontata più volte negli ultimi decenni senza mai arrivate ad una soluzione. È probabile che anche stavolta si tergiversi in attesa che l’emergenza rientri. È un copione tipico nel nostro paese. All’improvviso ci si accorge di problemi che in realtà sono aperti da decenni (vedi gli alloggi per gli studenti tanto per fare un esempio), ci si accapiglia per un po’ con dibattiti e polemiche da cui non emerge alcuna effettiva soluzione per cui la situazione rimane inalterata. Qualcuno potrebbe trovarlo rassicurante: malgrado l’apparente durezza dello scontro e del confronto vi è la quasi certezza che alla fine tutto rimarrà come prima. Nel caso dei taxi la questione riguarda un ambito, quello delle liberalizzazioni nelle concessioni pubbliche, nel quale il nostro paese fa fatica a cambiare assetti che non sono più tollerabili; e in qualche caso contrari anche alle disposizioni Ue. La situazione sembra paradossale: si privilegiano gli interessi di specifiche categorie rispetto all’interesse generale. In teoria quest’ultimo dovrebbe riguardare una platea più vasta di quella delle categorie privilegiate per cui dovrebbe prevalere. In pratica gli interessi delle categorie sono ben difesi e rappresentati mentre l’interesse generale si affida alla rappresentanza politica nei diversi ambiti istituzionali. Finora, nel caso delle liberalizzazioni gli interessi generali sono stati rappresentati in modo molto debole. Ciò riflette la scarsa sensibilità dei partiti e degli elettori per questi temi. D’altra parte, le grandi culture politiche che si sono di volta in volta affermate nel nostro paese, da quella cattolica e comunista prima, alla populista più di recente hanno tutte una scarsa fiducia (quando non una aperta avversione) per la concorrenza e il mercato. La cultura liberale ha sempre avuto scarso peso nei riferimenti ideali delle forze politiche italiane a ancor meno nella pratica dell’azione politica. Questo ha determinato il consolidarsi di una quantità di situazioni di rendita che diventa sempre più difficile scalfire. È importante sottolineare che la necessità di rimuovere le rendite di posizione non è giustificata dal risentimento da pare di chi è escluso o da un intento punitivo verso chi dispone di privilegi ingiustificati. L’assenza di libertà di entrata e di concorrenza determina prezzi più elevati dei servizi e riduce l’innovazione e la qualità dell’offerta. Il problema è che questi effetti non riguardano solo lo specifico settore interessato, come quello del trasporto urbano nel caso dei taxi. Essi si propagano a tutta l’economia e pesano in particolare sui settori aperti alla concorrenza internazionale (come è il caso del manifatturiero), che non possono scaricare le inefficienze nazionali sui prezzi e subiscono per questo una riduzione dei margini e della competitività. Si tratta di effetti per nulla marginali. Un recente studio di alcuni ricercatori dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha provato a stimare l’effetto sulla produttività dei settori aperti alla concorrenza internazionale dall’assenza di concorrenza nei settori a monte, fornitori di servizi: energia, comunicazioni, trasporti, distribuzione, servizi professionali. Com’era da attendersi l’Italia è fra i paesi con i più alti livelli di regolamentazione e i più bassi livelli di concorrenza. I ricercatori hanno stimato che se l’Italia avesse liberalizzato questi settori secondo le migliori pratiche internazionali avrebbe ottenuto una crescita della produttività fra uno e due punti percentuali in più all’anno. Un impatto enorme. Si tratta di stime e come tali i risultati dipendono dalle ipotesi e dal modello utilizzato. La misura dell’effetto può cambiare ma il messaggio finale è chiaro: la mancata liberalizzazione dei settori protetti ha conseguenze non più tollerabili per la produttività e la capacità competitiva del nostro paese. Non è un caso che le liberalizzazioni sono fra i punti qualificanti del Pnrr. È possibile che i vincoli imposti dall’esterno ci indurranno a fare in pochi anni ciò che non siamo riusciti a fare autonomamente in decenni. È comunque una buona notizia, anche se poco confortante.

*Docente di Economia all’Università Politecnica delle Marche e coordinatore della Fondazione Merloni

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Corriere Adriatico