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Il tema delle disuguaglianze territoriali ha assunto crescente rilevanza nell’agenda politica, non solo in Italia. Ciò è dovuto al fatto che a partire dagli anni ’80 del secolo scorso si è invertita la tendenza alla convergenza fra i livelli di sviluppo ed è emersa una continua e persistente divergenza. Nel corso dei decenni si è anche modificata la scala territoriale alla quale sono riferite le disuguaglianze. Dal confronto fra nazioni o grandi aree all’interno dei singoli paesi (nel caso italiano lo storico divario nord-sud) si è passati a scale territoriali più ridotte: all’interno delle regioni o delle aree urbane. Le disuguaglianze territoriali vanno misurate ad una scala molto piccola se si vuole avere una mappa attendibile del fenomeno e comprenderne le cause. Su queste ultime vi sono alcune tesi consolidate ma non vi è pieno accordo. La causa principale è individuata nell’impetuoso sviluppo tecnologico degli ultimi decenni e nella rilevanza sempre maggiore assunta dall’economia della conoscenza. Questi cambiamenti favoriscono i centri urbani nei quali si concentra l’offerta di servizi avanzati e la domanda di lavoro qualificata; con conseguente aumento delle retribuzioni e della produttività che genera ulteriori effetti di attrazione. Nelle aree periferiche si determina una situazione opposta di abbandono da parte delle persone con maggiori livelli di qualificazione, riduzione del reddito e della produttività, contrazione della domanda e ulteriore riduzione delle opportunità. Agli effetti derivanti dall’evoluzione delle tecnologie e dal passaggio ad un’economia basata sui servizi si è sommata, secondo alcuni autori, la disattenzione da parte dei policy maker per il tema delle disuguaglianze. Il principale indiziato in questo caso è la globalizzazione. Non è l’apertura internazionale di per sé ad essere messa in discussione quanto il fatto che i governi hanno lasciato eccessiva libertà alle forze di mercato rinunciando ad intervenire per attenuare gli effetti. Se dall’analisi delle cause si passa a quella dei possibili interventi le questioni non sono meno complesse e controverse. In linea di massima si possono distinguere due tipologie di interventi. La prima prevede agevolazioni di tipo fiscale o finanziario per le aree svantaggiate nell’ipotesi che questo incentivi gli operatori economici ad insediarsi o a rimanere in quelle aree. Si tratta di provvedimenti che non differenziano per le caratteristiche dell’area e che non hanno possibilità di influire sulle traiettorie dello sviluppo. Queste politiche sono state dominanti fino a qualche decennio fa e continuano ad essere proposte, come nel caso della recente normativa sulle zone economiche speciali. I risultati raggiunti sono controversi, non solo nell’esperienza italiana. Anche quando sono risultate efficaci hanno spesso determinato l’insediamento di attività produttive che poco hanno a che vedere con le caratteristiche e la vocazione dei territori.
* Docente di Economia alla Politecnica delle Marche e coordinatore Fondazione Merloni
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