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Std (“Sub Tutela Dei”) sono le tre lettere che si ritrovano in tutte le agende del martire Rosario Livatino. Anche nella rubrica del 1990 che fu recuperata tra le sterpaglie del vallone dove lui trovò la morte. Con quella antichissima sigla nel Medio Evo si invocava divina assistenza nell’adempimento dei pubblici uffici. In questi giorni nei “palazzi del potere” viene esposta la reliquia del magistrato ucciso dalla mafia, proclamato Beato da Papa Francesco e divenuto il primo giudice nella storia elevato agli onori degli altari dalla Chiesa. Ad essere offerta alla venerazione dei fedeli è la camicia insanguinata che indossava “il giudice ragazzino” il 21 settembre 1990, giorno della sua uccisione da parte dei sicari di Cosa Nostra. La coincidenza con la cattura del boss latitante Matteo Messina Denaro rende questa esposizione ancora più utile nell’aiutarci a riflettere individualmente e collettivamente, scuotendo coloro che da alcune “stanze dei bottoni” fino alle strade di Castelvetrano ancora fanno finta di non comprendere o ancora peggio di ignorare la gravità dell’indifferenza, delle omissioni, delle complicità dirette e indirette. Livatino non è solo un modello per ogni magistrato ma deve essere fonte di ispirazione per tutti coloro che credono in valori assoluti e non negoziabili quali la giustizia, la legalità, la verità e l’onestà. Ancora oggi sono in tanti i “colletti bianchi” che indossano camicie come quella di Livatino apparentemente pulite e prive di ombre ma poi di fatto macchiate di qualunque sporcizia e del sangue degli innocenti. La comunità soffre il dramma del silenzio e della poca attenzione che si attribuisce a un male culturale e sociale radicato in profondità, ossia l’azione indisturbata delle mafie che proseguono i loro malaffari perché sono appoggiate dagli innumerevoli fiancheggiatori che ne ricavano inconfessabili benefici. Una camicia reliquia di santità, quindi, e tante altre segno di vendetta. Laico e martire, secondo la formula della sua beatificazione, Livatino fu “nel servizio della giustizia testimone credibile del Vangelo”. E la sua camicia intrisa di sangue rimanda proprio all’agguato mafioso con cui 33 anni fa fu barbaramente trucidato mentre si recava senza scorta con la sua utilitaria da Canicattì al Tribunale di Agrigento. Nel 1975 si laureò in giurisprudenza con il massimo dei voti. Sulla tesi scrisse proprio il suo motto: “Std”. Superato il concorso per entrare in magistratura, prestò servizio al Tribunale di Caltanissetta prima di divenire sostituto procuratore e poi giudice della sezione penale ad Agrigento. Cadde per mano di un commando di killer mafiosi che odiavano la sua fede e la sua integrità nell’esercizio della giustizia. Sul suo diario lasciò scritto: «Dinanzi all’Eterno non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili». E il giorno in cui divenne magistrato annotò parole che suonano come consacrazione di una vita: «Ho prestato giuramento: da oggi sono in magistratura.
*Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
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