Settimana corta anche in Italia, si discute sul modello dei 4 giorni. Ma per ora l’industria frena

I sindacati favorevoli, restano le difficoltà per un tessuto fatto di molte piccole aziende

Settimana corta, spinta anche in Italia: si discute sul modello dei quattro giorni. Ma per ora l’industria frena
Quattro giorni di lavoro a settimana, a parità di orario o anche con orario ridotto. Le sperimentazioni avviate in Gran Bretagna e in Portogallo hanno riacceso...

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Quattro giorni di lavoro a settimana, a parità di orario o anche con orario ridotto. Le sperimentazioni avviate in Gran Bretagna e in Portogallo hanno riacceso l’attenzione su un’idea che per la verità si era già affacciata negli ultimi anni (ad esempio in Germania con il sostegno del potente sindacato metalmeccanico) ma che potrebbe trovare nuova linfa in questa particolarissima fase economica e sociale, dopo la pandemia e nel pieno della crisi energetica.

 

IL DOPO PANDEMIA

La settimana corta si connette in qualche modo allo smart working vissuto in questi tre anni, a cavallo tra necessità e innovazione; la prospettiva di un giorno libero in più per gli interessi personali o la vita familiare può risultare appetibile ai lavoratori. Ma in un tessuto industriale come quello italiano, fatto in larga parte di piccole e piccolissime imprese, l’ipotesi pone una serie di problemi. E da parte imprenditoriale si percepisce una forte prudenza. Anche il governo con il ministro Urso ha espresso cautela pur non bocciando la possibilità di un percorso di questo tipo.

Si schierano invece abbastanza apertamente i sindacati. Con la Landini per la Cgil che ha annunciato una proposta ufficiale e la Cisl che si dice favorevole alla sperimentazione. Mentre la Uil con il segretario Bombardieri sollecita piuttosto la riduzione di orario a parità di retribuzione. Nel mondo dei servizi è di qualche settimana fa la scelta di Intesa Sanpaolo di muoversi verso la settimana corta, anche se l’applicazione sarà graduale. L’esperimento britannico che si è concluso da poco si basava sulla scelta volontaria di 61 aziende per un totale di circa 3 mila lavoratori, in vari settori diversi. La risposta è stata in larga parte positiva: 56 imprese sono propense a continuare. Il modello adottato prevedeva una media di 34 ore lavorate, dunque 8 e mezzo al giorno.

Qui si incontra uno dei punti principali da chiarire: se la settimana di quattro giorni va eventualmente attivata a parità di orario (su 36 ore sarebbero 9 al giorno ad esempio) o se invece deve essere uno strumento di riduzione dell’impegno settimanale complessivo. Nel secondo caso per le imprese si potrebbe tradurre in una diminuzione del costo del lavoro, mentre per i dipendenti si prospetterebbe uno scambio: un po’ di stipendio in meno in cambio di tempo libero e potenziale apertura di nuovi spazi di vita.
«La riduzione delle ore di lavoro è una tendenza secolare, che è stata rinforzata da quanto successo con la pandemia - ragiona Marco Leonardi economista dell’Università di Milano Statale, che ha collaborato con vari governi- ma sarebbe un errore fatale imporre un modello per legge».

I RISCHI

Secondo Leonardi si deve semmai procedere su base volontaria o con incentivi, che in parte esistono già: «Il Fondo nuove competenze permette di riorganizzare l’orario di lavoro in funzione della formazione è sta riscuotendo un buon successo tra le imprese». L’economista cita una vicenda accaduta in Francia per spiegare i possibili rischi di una regolamentazione rigida. «Per scoraggiare il ricorso a part time troppo ridotti è stato stabilito un livello minimo di 24 ore. Ma in molti casi le aziende si sono trovate in difficoltà a riorganizzarsi di conseguenza. E così hanno preferito sostituire magari due lavoratrici impegnate a tempo parziale con un solo lavoratore a tempo pieno, maschio».
 

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Corriere Adriatico