Ha soffocato il figlioletto nell’auto Il giudice: dodici anni al papà killer

Ha soffocato il figlioletto nell’auto Il giudice: dodici anni al papà killer
CUPRAMONTANA - Dodici anni di reclusione per aver soffocato il figlio nella propria auto, a due passi da casa. È questa la pena che il gup Francesca De Palma ha inflitto...

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CUPRAMONTANA - Dodici anni di reclusione per aver soffocato il figlio nella propria auto, a due passi da casa. È questa la pena che il gup Francesca De Palma ha inflitto ieri mattina al 26enne macedone Besart Imeri, recluso a Montacuto dalla notte del 4 gennaio scorso con l’accusa di omicidio volontario pluriaggravato. A perdere la vita era stato il piccolo Hamid, 5 anni, primogenito di Besart e di sua moglie. 


 

Il pm Valentina Bavai aveva chiesto per l’ex operaio una condanna a 14 anni e 8 mesi di reclusione, considerando il rito abbreviato chiesto dal legale Raffaele Sebastianelli e valutando le circostanze aggravanti (età della vittima, minorata difesa e legame di parentela) equivalenti alle attenuanti, ovvero la riconosciuta seminfermità mentale dell’imputato, decretata dalla psichiatra Francesca Bozzi, ctu nominato dal giudice. Lo sconto del gup fa riferimento al maggior peso dato al risultato della perizia rispetto agli altri fattori contestati dalla procura. Gran parte del processo si è proprio giocato sull’analisi della capacità di intendere e di volere del 26enne al momento del fatto. Il perito della difesa, lo psichiatra Massimo Melchiorre, ha rivelato un totale vizio di mente nel macedone, affetto da una psicosi grave. L’uomo sarebbe caduto in uno stato di trance emotiva che il giorno della tragedia gli avrebbe fatto vivere una blackout totale, spingendolo nel baratro del delitto. «Una forza si è impossessata di me, dicendomi di uccidere mio figlio. Quando l’ho fatto non ero in me. Volevo bene a mio figlio», aveva detto Besart durante l’interrogatorio di garanzia di fronte al gip Carlo Cimini, messo al corrente anche della depressione che l’imputato stava vivendo in quel momento e legata soprattutto alla perdita del lavoro. 

Condizione che aveva convinto il 26enne a farsi seguire sporadicamente dagli specialisti del Dipartimento di Salute Mentale dell’ospedale di Jesi. Il pomeriggio del 4 gennaio aveva strappato alla vita Hamid, tappandogli la bocca e mettendogli una mano sul naso mentre si trovava sul sedile posteriore di una Toyota Yaris verde, posteggiata a pochi metri dall’ingresso di casa, dove il piccolo viveva con i genitori, gli zii e il nonno paterno. Era uscito per accompagnare il papà a comprare le sigarette al tabacchi. L’auto non era stata neanche messa in moto. Hamid era morto in pochissimi minuti. Diversa, rispetto a quanto decretato dal dottor Melchiorre, la visione del consulente del giudice: per la Bozzi non sarebbe ravvisabile una totale incapacità di intendere e di volere, ma piuttosto una seminfermità mentale. Al momento del delitto, la capacità del 26enne era grandemente scemata. Un deficit profondo e improvviso che aveva fatto sprofondare un’intera comunità nella disperazione e nel lutto. 


Ieri, in udienza, erano presenti il papà di Besart e sua moglie. Quando l’imputato si è presentato in tribunale scortato dagli agenti della Polizia Penitenziaria, il suo sguardo non s’è neanche incrociato con quello dei suoi familiari. La coniuge, incinta al momento dell’omicidio e ora madre di un altro bimbo, si è portata le mani al volto, commossa. Neanche una parola per Besart nell’anticamera dell’aula d’udienza. E non ne ha neanche spese il 26enne quando il giudice ha letto la sentenza. Magrissimo, camicia nera, pantaloni sportivi grigi, è rimasto impassibile di fronte ai dodici anni di condanna. Le motivazioni della sentenza usciranno entro novanta giorni. Solo dopo la lettura, l’avvocato Sebastianelli deciderà se appellare il verdetto di primo grado. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico