Donna non sposata vince la sua battaglia in tribunale: il figlio avrà il cognome del papà che è in coma

Madre e figlio in un'immagine di archivio
ANCONA - La tragedia arriva all’improvviso e nel momento più felice per una coppia convivente della Vallesina. Lei, 35 anni, è incinta al quinto mese di...

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ANCONA - La tragedia arriva all’improvviso e nel momento più felice per una coppia convivente della Vallesina. Lei, 35 anni, è incinta al quinto mese di gravidanza. Lui, alla soglia dei 38 anni, viene colto da un infarto: il cervello rimane per troppo tempo senza ossigeno, i danni riportati sono gravissimi.

 

 

A settembre 2019 entra in un coma profondo, da cui non si è ancora risvegliato. A gennaio 2020, la compagna dà alla luce il primogenito. E nella tragedia della “morte sospesa”, entra un altro dramma: il riconoscimento del neonato. 


La formalità
La coppia non è sposata (il matrimonio doveva avvenire dopo la nascita del piccolo), condizione per cui entrambi i genitori devono recarsi all’anagrafe per sottoscrivere l’atto formale volto a riconoscere il piccino. Ma ciò, a causa delle condizioni del padre, non è possibile. È l’inizio di una battaglia lunga un anno, periodo in cui la famiglia del bimbo ha cercato soluzioni a destra e a manca per accertare ufficialmente la paternità e dare al piccolo quello che, in questo caso, è risultato essere molto più di un cognome. L’unica possibilità, alla fine, è risultata essere la causa legale, portata avanti positivamente dall’avvocato Andrea Nobili, affiancato dal collega Michele Zuccaro: recentemente è stato il giudice Alessandro De Tano a “dare” un padre al bimbo (da poco compiuto un anno) sulla base dell’analisi genetica. 


I tentativi
Prima di rivolgersi al tribunale, la famiglia del piccino le ha tentate tutte: «Quando è nato il bimbo – racconta la nonna paterna – siamo stati messi con le spalle al muro. A livello giuridico, me, mio marito e nostro figlio non eravamo niente. Ci siamo trovati di fronte a una situazione impensabile. Inizialmente pensavamo che il matrimonio potesse risolvere la questione: abbiamo telefonato a destra e a sinistra, anche in ambito clericale, ma ci è sempre stato risposto che non c’era alcuna possibilità di officiare l’unione. Ci sarebbe voluto il consenso di mio figlio. A un certo punto, era rimasta solo la carta del tribunale. Il nostro avvocato, presentandoci una strada non proprio semplice, ci ha domandato se ce la sentivamo. Sì, abbiamo fatto quello che andava fatto. Se qualcosa deve cambiare? Dal punto di vista giuridico sì, soprattutto quando si tratta di bambini». 


L’iter


«I tempi sono stati inevitabilmente influenzati dall’emergenza Covid – afferma l’avvocato Nobili - ma l’iter poteva essere anche più lungo: il tribunale ha capito l’eccezionalità della situazione. Siamo di fronte a un caso estremo: il padre, per cui è stato nominato un curatore speciale, paradossalmente figurava come controparte». Tali cause, infatti, solitamente vengono incardinate per accertare la paternità quando questa è dubbia. Spiega Nobili: «Per le coppie conviventi il riconoscimento dei figli diverge rispetto a quanto previsto dalla legge per quelle coniugate. Per quest’ultime il riconoscimento, anche se compiuto da un solo genitore, vale automaticamente per l’altro. Se la coppia non è sposata, è necessario che entrambi i genitori si rechino all’anagrafe. Diversamente, resterà accertata solo la madre».  Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico