Il colmo per un genovese? Interpretare “L’avaro” di Molière. Succede a Ugo Dighero, che porterà la commedia alle Muse di Ancona, da domani (ore 20,45) a domenica (ore 16,30), per la stagione di Marche Teatro.
Quanto le assomiglia Arpagone, Ugo Dighero?
«Direi che è un’occasione fantastica, per me. Sono nel personaggio, anche se, per fortuna, con l’avarizia ho fatto i conti fin da quando, al liceo, mi sono accorto che erano sempre gli amici a offrirmi il caffè. E poiché è un difetto orribile, che prima o poi conduce all'avarizia dei sentimenti, ho cercato tempestivamente di correggermi. L'avarizia dei sentimenti non mi appartiene. Sono generoso, e curioso delle emozioni degli altri, da cui c'è sempre da imparare».
È riuscito quindi a togliere ad Arpagone un po' di grettezza, tipica dell'avaro?
«Tutto nasce da un'intuizione del regista, Luigi Saravo. Senza cambiare una virgola del testo, un classico che dura nel tempo, ne ha interpretato una sorta di profezia per il futuro, per il nostro oggi. Arpagone è un essere spregevole, d'accordo; ma i suoi parenti, amici, servi non sono da meno. Da noi si dice: il più sano ha la rogna».
Si dice anche da noi. Ma in che senso?
«Guardiamo i suoi figli, Cleante ed Elisa, i tipici consumatori moderni. Contestano il padre, ma gli restano attaccati come cozze, cercando di spillargli più soldi che possono. Mentre lui, al contrario... ».
Tiene ben stretta la scarsella. Ma non mi dirà che è un personaggio positivo?
«Visto con gli occhi di oggi, in fondo è uno che ricicla, che tende al risparmio, energetico e non: nel mondo attuale, rappresenta l'unica possibilità per il futuro dei nostri figli.
Una visione, che non poteva essere prevista da Molière.
«Ma che Saravo è riuscito a evidenziare. Evitando di esaltare i tratti grotteschi, ha dato tridimensionalità al personaggio che, in fondo, è sinceramente innamorato di una ragazza povera, Marianna. Il merito del regista è di non aver ridicolizzato Arpagone, riconoscendone invece l'umanità. Questi personaggi ci assomigliano, la storia raccontata riguarda anche noi».
Una lezione morale?
«Che passa per il divertimento. La traduttrice, Letizia Russo, ha reso possibile, senza tradire il testo, portare la vicenda ai nostri tempi di neoliberismo, in cui vale solo il denaro. Non è importante se le società su cui investiamo costruiscono armi o simili, importa intascare soldi. E questo ci sta portando dritti alla rovina».
Un suo aggettivo per definire lo spettacolo?
«Empatico, perché ha centrato l'obiettivo di Saravo, che ci ha fatto lavorare molto sull'ascolto tra noi, in modo da ricostruire in scena ogni accadimento come un dato della realtà. Questo crea attenzione e partecipazione da parte del pubblico. Alle matinée del nostro “Avaro” per gli studenti, non volava una mosca. Li avevamo catturati».