Sferisterio, divisi tra Rigoletto e Mimì
Così diversi tra loro eppure senza scampo

Celso Albelo: Rigoletto allo Sferisterio (Ufficio stampa/Foto Tabocchi
Celso Albelo: Rigoletto allo Sferisterio (Ufficio stampa/Foto Tabocchi
di Fabio Brisighelli
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Giovedì 16 Luglio 2015, 11:55 - Ultimo aggiornamento: 17 Luglio, 10:58

MACERATA - ​Due figure si stagliano tra i personaggi dell'opera attesi allo Sferisterio: Rigoletto e Mimì (della Bohème).

Due figure immortali, rese tali dai loro incomparabili compositori, Verdi e Puccini, i due vessilliferi del melodramma lirico nazionale. Sono lontani anni luce l'uno dall'altro, i nostri due protagonisti, ma rispondono entrambi in qualche misura a un concetto analogo: nella vicenda che li vede protagonisti conseguono una loro personale umanizzazione attraverso la sofferenza e il dolore, aldilà di come il tutto si esprime per il tramite di scritture musicali chiaramente diverse.

Rigoletto indossa la veste di giullare che taglieggia verbalmente i famelici e asserviti nobili di palazzo per una sorta di ineludibile imposizione sociale, che lo costringe a vestire nell'ufficialità della sua "professione" i fittizi panni di buffone, di aborrito "Mr.Hyde" di corte; ma nell'intimità della sua dimora e dei suoi circoscritti affetti può finalmente spogliarsi ("Ma in altr'uomo qui mi cangio") per assumere sembianze e sentimenti umani.

La "facies" toccante ed umana del personaggio "appassionato e pieno d'amore" per la sua Gilda si scopre nell'evidenza dello straordinario duetto con la figlia, nella meravigliosa fluidità melodica di "Deh, non parlare al misero", rivelatrice di una comunione affettiva profonda.

Tutti questi sentimenti trovano nel canto il veicolo ideale della loro realizzazione. Ma su Rigoletto incombe un fato sinistro e maligno, che si attua alla fine, al tragico epilogo della vicenda: la maledizione di Monterone cade inesorabile su Rigoletto, su lui padre che ha irriso al dolore di un altro padre.

Le eroine pucciniane si collocano in ripiani affettivi diversi, dove le "creature del Paradiso" (Mimì, Butterfly, Suor Angelica, Liù) si oppongono alle "creature dell'Inferno" (Manon, Tosca, Turandot). Mimì apre il breve elenco delle prime, e nella gelida soffitta degli squattrinati amici diventa con loro l'emblema della giovinezza perduta, con loro incarna l'idealizzazione malinconica e sognante di un'età che passa e rapida trascorre, con le sue sensazioni, le sue poesie, la sua vitalità.

Il microcosmo di affetti di rara gentilezza che esprime si rivela in un'espressività melodica condensata talora in una o due battute che danno conto della delicata e commovente caratterialità del personaggio (Un po' di vino... grazie a lei... poco... poco"), anche perché Puccini sa miniaturizzare al meglio ogni dettaglio emotivo. E così trascorrono, in note affettuose, i teneri pudori dell'anima, in una serie di quadri d'ambiente ricchi di viva e brulicante umanità. Sino alla fine, quando i "giorni belli" risultano inesorabilmente trascorsi, e Mimì ci appare anche più bella ed umana, nella sua triste condizione senza scampo.

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