Sul suo contachilometri personale, i numeri sono altissimi. Cifre su cifre, a disegnare un cammino che è iniziato e non si è mai arrestato. Se una matita tracciasse i suoi spostamenti nel mondo, la linea che verrebbe fuori attraverserebbe tanti paesi e avrebbe le sembianze dell'impronta lasciata sul selciato dalle ruote della bicicletta, compagna di viaggi ideale, unica, inseparabile. Accarezzata dal vento dolce della primavera, sotto il sole cocente d'estate o nel freddo tagliente dell'inverno, vicino ad Adriano Spinozzi c'è sempre lei, la sua bicicletta, per un'avventura che guarda a traguardi lontani ed è costellata di bei ricordi e un amore viscerale nato per caso da ragazzino.
La passione
Viene da lontano quella passione. Precisamente da un'epoca in cui le due ruote, per un Adriano poco più che quattordicenne, erano quelle del motorino «comprato con le ottantamila lire che avevo guadagnato nelle estati precedenti andando ad aprire e chiudere, tutti i giorni per tre mesi, gli ombrelloni di uno degli chalet di Lido di Fermo - comincia - fu una grandissima gioia poterlo cavalcare per strada, per non parlare della soddisfazione di averlo guadagnato pezzo per pezzo. Era una sorta di reliquia sacra: dal lunedì al venerdì era chiuso in garage al riparo da qualsiasi intemperie lo potesse scalfire. Poi arrivava il weekend e finalmente, con la benedizione di mio padre, potevo farlo uscire dal suo guscio e godermelo un po'. Ricordo ancora il tragitto tra casa mia, a San Michele, e Porto San Giorgio: la strada aveva il sapore della libertà, dell'emancipazione, dell'avventura. Arrivati a destinazione, gonfio di orgoglio parcheggiavo il mio bolide con cura alla stazione e via a godere di quel divertimento e quella spensieratezza che, al ritorno, avrei prolungato in sella al mio motorino. Era vero amore - scherza Spinozzi - talmente tanto forte, che era un vero peccato viverlo solo per due giorni a settimana. Così, ben presto, intrapresi una routine che ai miei genitori rimase oscura per diverso tempo. Durante la settimana, approfittando dell'assenza di mio padre e di mia madre impegnati a lavoro, scendevo quatto quatto in garage e, sfidando davvero la sorte e una punizione che, se scoperto, sarebbe di certo stata a dir poco severa, liberavo il bolide dalle sue catene, salivo a bordo e mi avventuravo sulla sua sella su e giù per le strade di San Michele e dintorni».
La storia
«Filò sempre tutto liscio, almeno fino alla volta in cui, facendo motocross in zona Valle Oscura, caddi a terra e ruppi le forcelle.
Tra le tante figure che gravitavano intorno a quell'attività, c'era quella di un distinto signore che forniva alla fabbrica accessori per le calzature a cui un giorno, il proprietario raccontò della grande delusione calcistica che avevo vissuto poco prima quando, vista la mia abilità con il calcio, feci il provino per entrare nel Torino ma fui scartato perché, da centrocampista quale ero, non soddisfacevo il loro bisogno di trovare una punta. Gli chiese se potesse fare qualcosa per farmi ritrovare il sorriso spento da quella delusione e, dopo avermi chiesto quanto fossi alto, tornò con una bicicletta meravigliosa. Fu amore a prima vista, nonché l'inizio di una carriera ventennale (debutto nel Gruppo Ciclististico Faleriense a 14 anni nella categoria allievi, per poi approdare a quella juniores classificandosi, a 18 anni, tra i primi cinque in categoria) che mi ha fatto girare il mondo, conoscere persone eccezionali, regalato soddisfazioni enormi».