Pigliamoci una pausa dalle bombe e dalle minacce di Putin, dalle immagini di sangue, dagli scenari spaventosi aperti dalla guerra in Ucraina. Pigliamoci una pausa dalla tragedia che ha cancellato tutto il resto pandemia inclusa, ritagliamoci un momento leggero, parliamo degli Oscar. Li assegnano nella notte fra domenica e lunedì, scommetto che parecchi fra voi manco se lo ricordavano. Gli Oscar cui buona parte dei cinefili, io sono nel gruppo, guarda con olimpico distacco, come a qualsiasi premio del resto, i premi son notiziole in cronaca e basta lì, non garanzia del valore di un’opera, e quanto agli Oscar ciascuno può compilare lista lunghissima di vincitori con poco merito e di giganti trascurati. La cerimonia degli Oscar è la festa pomposa con cui Hollywood celebra se stessa, l’equivalente di Sanremo per l’industria della canzone italiana, via. Una sequela di thank you e piantarelli, e per distrarsi un po’ va benissimo. Dieci titoli si contendono la statuetta principale. L’elenco includi tre capolavori. “Drive My Car” di Ryusuke Hamaguchi, il “West Side Story” di Spielberg, “Licorice Pizza” di Paul Thomas Anderson. Sintetizzando: il film che va a zonzo (il protagonista elaborando un lutto), il film che danza anche quando le geniali musiche di Bernstein non risuonano, il film che corre, perché il primo amore tutto travolge. Tre film che vorresti non finissero mai, che di fatto non finiscono, ti si installano nella testa, non se ne vanno, li ripercorri, li espandi, i pensieri partono in mille direzioni. Licorice è ancora nelle sale e se non l’avete visto non so cosa aspettate, induce euforia dà dipendenza, non resisterò a lungo prima di farmi la seconda dose e già ho voglia della terza, dell’ennesima. Scendiamo di un gradino, e comunque è roba buona assai, con Kenneth Branagh che ricorda la sua infanzia e i primi scontri fra cattolici e protestanti in “Belfast”, con il fantascientifico e spettacolare “Dune - Prima parte” di Villeneuve e con “La fiera delle illusioni”, celebrazione in noir, firmata Guillermo Del Toro, della magnifica illusione che è il cinema. Metto in terza fila i conflitti familiari western di “Il potere del cane” (regia di Jane Campion, una capace di ben altro, qui s’è persa nei paesaggi dimenticando di incendiare il dramma) e la fine del mondo narrata da Adam McKay in “Don’t Look Up”.
*Opinionista e critico cinematografico