Evviva, la lingua italiana ha trovato un impavido paladino. L’onorevole Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia, vicepresidente della Camera, ha presentato una proposta di legge, sottoscritta da una ventina di compagni di partito, per ripulire il nostro idioma dai troppi termini inglesi che vi si sono infiltrati. Il fenomeno è reale, segnalato da tempo dall’Accademia della Crusca, oggi il dizionario Treccani include circa 800mila parole e 9mila sono anglicismi. E son molti di più quelli che incrostano la conversazione. Gli appassionati di videogame (chiedo scusa al Rampelli: di videogiochi) ormai i cattivi non li uccidono: li killano. Ed è normale che qualcuno ti suggerisca di downloadare un documento invece che scaricarlo. Per quel che vale, ne conoscevo un paio avvezzi a downloadare file. Li ho killati: metaforicamente, si capisce. Il testo integrale del disegno di legge lo trovate facile online (in Rete). In sintesi, il Rampelli propone l’utilizzo esclusivo della lingua italiana nei documenti della pubblica amministrazione, nei contratti di lavoro, nelle lezioni scolastiche e universitarie e via discorrendo. Bando ai detestati “forestierismi”. «Professore, non mi funziona il topo» sarebbe senza dubbio una frase gradita al Rampelli. Il topo che noi poco patriottici ancora ci ostiniamo a chiamare mouse. E per gli ostinati sarebbero cavoli amari: una multa compresa fra i 5mila e i 100mila euro. Il disegno di legge Rampelli ha un difetto lampante. Sa di vecchio. La battaglia per la purezza dell’italiano fu combattuta da Mussolini. Con moltiplicazioni di effetti comici non voluti. Il figlio del Duce, Romano, era pazzo per il jazz, fu pianista di valore, apprezzato da colleghi illustri. Problema: gli standard (i brani cardine del repertorio) erano tutti americani. Si andò giù pesante con le traduzioni. Non sempre ben riuscite, se “St. Louis Blues” divenne “Tristezza di San Luigi”, interpretato in modo impareggiabile dal misterioso Luigi Braccioforte, notissimo però in ogni altro angolo del globo: come Louis Armstrong. Mentre Marinetti, mica un cretino qualunque, cambiò “Bar” in “Qui si beve”, meritandosi lapidaria stroncatura da parte di Borges: «Tre parole al posto di una», impossibile dar torto al sommo argentino.
* Opinionista e critico cinematografico