Ha ricevuto anche su questo giornale ampia copertura il rapporto dell’Istat sulla demografia in Italia pubblicato la scorsa settimana. A suscitare attenzione non è il calo della popolazione registrato nel 2022: si tratta, infatti, di una tendenza consolidata da diversi anni e destinata a permanere. Ciò che ha maggiormente attirato I’attenzione è stato il numero di nati, 393 mila, che rappresenta un minimo storico per il nostro paese. Il numero di nati è determinato da due componenti: il numero di persone, in particolare donne, in età fertile e il tasso di fecondità, cioè il numero medio di figli per donna. Quest’ultimo indicatore è attualmente pari in Italia a 1,24; valore non molto dissimile da quello registrato agli inizi di questo secolo. In effetti, il tasso di fecondità si è ridotto drasticamente in Italia negli anni ‘80 del secolo scorso.
La riduzione delle nascite che vediamo oggi è quindi il risultato del calo della natalità iniziato in quegli anni, quando sono nate le persone che sono oggi in età fertile. In assenza di interventi correttivi (che non ci sono stati) l’attuale andamento demografico era inevitabile ed era stato previsto dai demografi. Così come è prevedibile cosa succederà nei prossimi decenni. I nati di oggi costituiranno, infatti, la popolazione in età fertile fra trent’anni. Il basso numero di nati degli ultimi anni è preoccupante proprio per i suoi effetti a lungo termine, poiché contribuiranno ad accelerare la tendenza alla riduzione delle nascite. In questo scenario non sono fuori luogo i richiami di chi paventa l’estinzione degli italiani. L’andamento demografico non è ineludibile. Altri paesi, come Francia e Germania, sono intervenuti tempestivamente e con successo nel contrastare la denatalità. Le ultime proiezioni prevedono per la Francia una crescita continua della popolazione fino alla fine di questo secolo; per la Germania la crescita continuerò fino agli anni ‘70 a partire dai quali si prevede una stabilizzazione.
Se non si interverrà con decisione ed efficacia sulla denatalità nel nostro paese, alla fine di questo secolo gli italiani saranno poco più della metà dei francesi.
Il calo della popolazione e il suo progressivo invecchiamento sono a questo punto difficilmente evitabili. Si può solo cercare di rallentarli. E di prenderne atto nel disegno delle politiche e dei servizi. Bene ha fatto Lolita Falconi nell’editoriale di sabato scorso su questo giornale a richiamare al realismo nella programmazione degli interventi nelle aree post sisma. Prendendo atto delle effettive tendenze demografiche e non di improbabili scenari di ripopolamento. Anche per l’immigrazione occorre ragionare con maggiore realismo ed efficacia. I flussi migratori dall’esterno possono contribuire a rallentare il declino demografico. Gli immigrati, però, tendono a concentrarsi nelle principali aree urbane e nelle aree più ricche del paese. Possono alleviare il problema demografico ma rischiano di accentuare gli squilibri territoriali. Un effetto salutare e positivo della recente presa di coscienza sull’andamento demografico sarebbe proprio quello di tornare a ragionare delle prospettive a lungo termine del nostro paese; prendendo atto che il tema demografico va affrontato in termini strutturali, prescindendo dalle polemiche politiche del momento.
*Docente di Economia
alla Politecnica delle Marche
e coordinatore
Fondazione Merloni