Processo Stato-mafia
Forlani testimone in aula

Arnaldo Forlani davanti al tribunale
Arnaldo Forlani davanti al tribunale
di Melania Di Giacomo
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Giovedì 5 Febbraio 2015, 20:35 - Ultimo aggiornamento: 20:39
ROMA - Processo Stato-mafia, Arnaldo Forlani testimone in aula.

Da anni è lontano dalla scena politica e negli archivi scarseggiano sue immagini recenti, ma il loden verde e i grossi occhiali d'osso sono gli stessi. Scende dall'auto e avanza a passa svelto per i suoi 89 anni verso i corridoi della cittadella giudiziaria. Arnaldo Forlani, ex segretario della Dc, 'F' di quell'Idra a tre teste che erano i governi del 'CAF' della Prima Repubblica, di nuove in un aula di tribunale 20 anni dopo 'Mani Pulitè. Allora battagliò con Antonio Di Pietro sulla maxitangente Enimont nel processo Cusani, stavolta ha davanti i pm e la Corte d'Assise di Palermo in trasferta a Roma, che lo sentono come testimone.

La sua deposizione è stata chiesta nel processo sulla trattativa tra lo Stato e la mafia per ricostruire il passaggio che portò, nella formazione del governo Amato nel '92, all'avvicendamento alla guida del Viminale tra Vincenzo Scotti e Nicola Mancino. Fu una scelta condivisa dell'ufficio politico della Dc perchè Mancino «per risolutezza e forza di carattere era la persona indicata per il ruolo di ministro dell'Interno», ha risposto Forlani con garbo doroteo, senza aggiungere più di tanto, nelle tre ore successive, all'affermazione con cui aveva esordito e senza scomporsi davanti all'insistenza del pm.

«Sono passati 25 anni...», risponde più volte incalzato perchè facesse uno sforzo di memoria, salvo poi elencare con sicurezza tutta la lista dei ministri dc di quel governo, dodici. Scotti fu dirottato agli Esteri, una posizione di prestigio, «seconda solo a quella di presidente del Consiglio», perchè in quella fase ebbe un «atteggiamento contraddittorio»: dapprima irremovibile nella sua contrarietà alla delibera del partito che distingueva tra ruoli di governo e seggio parlamentare, «ma poi evidentemente aveva cambiato idea», accettando la guida della Farnesina, dove rimase solo per un mese.

Due passi in corridoio prima di entrare in aula. Presidente, come vede la politica italiana? La risposta, mentre non accenna a rallentare, è un gesto della mano a dire 'non mi faccia dire nientè. E il Presidente Sergio Mattarella al Quirinale? Lì si ferma, compiaciuto, e scandisce: «Una scelta giusta e merita di essere accompagnata dal consenso e dalla simpatia di tutti». Con il presidente della Repubblica ha in comune l'antica militanza nella Dc, come ricorda rispondendo più tardi ai magistrati. Parlando di come venissero assunte le decisioni sulle nomine dei ministri, Forlani spiega che «l'indicazione orientativa era assunta dall'ufficio politico», composto da lui stesso in quanto segretario, «dal presidente nazionale», all'epoca Ciriaco De Mita, «dai presidenti dei gruppi parlamentari, Gerardo Bianco e Mancino, e aperto anche ad altre personalità politiche tra le quali l'onorevole Sergio Mattarella, eletto meritatamente presidente della Repubblica».

Ruolo al quale lo stesso Forlani era stato candidato proprio in quell'anno che ora è sotto la lente dei magistrati. «Mi capitò - aveva detto poco prima con una vena di sussiego - di essere invitato a presentare la mia candidatura. Fui candidato ma non eletto (per 29 voti, ndr) come era nelle previsioni. Incoraggiai la scelta istituzionale, tra Spadolini, presidente del Senato, e Scalfaro, presidente della Camera». Fu scelto Scalfaro, una manciata di giorni dopo la strage di Capaci. Ma secondo Forlani che vi fosse stata un'accelerazione da parte del parlamento nell'elezione «in risposta all'azione intimidatoria» della mafia si deve solo alle «ricostruzioni della stampa».
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